AUTOCENSURA SUL WEB

La normativa sul commercio elettronico non si concilia con la libertà di espressione

Un emendamento relativo all’identificazione dei "servizi online" è stato adottato il 22 marzo scorso dall’Assemblea nazionale. Pertanto, (salvo successive modifiche al testo) chiunque editi un sito Web ovvero pagine personali o un gruppo di discussione, avrà l’obbligo di identificarsi rispetto ai terzi in modo diretto o indiretto — ossia, dovrà declinare le proprie generalità. In caso di dichiarazioni mendaci, si rischia la condanna a sei mesi di reclusione e 50.000 franchi di multa. Il principio generale è quello di un’identificazione diretta (attraverso la messa in rete, online, della propria identità); tuttavia, l’identificazione avviene in modo "indiretto" se il soggetto in questione non esercita l’attività di editing "a titolo professionale". In tal caso, gli elementi identificativi dovranno essere forniti all’intermediario tecnico, ossia al soggetto che ospita il servizio sul proprio server, il quale dovrà peraltro assicurarsi del rispetto di tale obbligo da parte dei clienti. In questo caso, e solo in questo caso, la persona che edita le pagine Web potrà utilizzare uno pseudonimo sul proprio sito. Ma che significa esprimersi a titolo professionale? Il problema è stato sollevato dal deputato Patrick Bloche: "Prendiamo il caso del dipendente di un’impresa che, durante l’orario di lavoro, crei pagine personali, esprima critiche rispetto al datore di lavoro o semplicemente eserciti i propri diritti di dipendente ovvero il diritto all’espressione sindacale". Siamo di fronte ad un’espressione professionale o personale? Nessuno può stabilirlo con certezza. In altri termini, i dipendenti in oggetto dovrebbero rivelare in rete la propria identità, e quindi — diciamolo pure — esporsi al rischio di rappresaglie, oppure potrebbero utilizzare uno pseudonimo che li protegga, sia esso individuale o collettivo? Tenuto conto, fra l’altro, del fatto che non tutti i dipendenti sono ovviamente tutelati in quanto delegati sindacali, rappresentanti del personale o membri della commissione d’impresa; che questi stessi dipendenti godono, come chiunque, del diritto legittimo di esprimersi, singolarmente o collettivamente, e dunque, in particolare, del diritto di critica; che la critica è, per principio, libera, e che può dare luogo ad abusi solo in determinate circostanze; che l’autorità giudiziaria — e solo essa — ha il diritto di pronunciarsi su tali abusi...

Che norma è mai questa, che vorrebbe subordinare il diritto all’espressione, quella presente in Rete a pieno titolo, alla previa dimostrazione della propria identità? E che ne è, allora, di coloro che di un’identità sono privi? I sans-papiers, per fare solo un esempio, si vedrebbero di fatto impedire la possibilità di editare servizi online.

Si tratta forse di un’interpretazione della libertà promessa da Internet, l’unica che veramente conti — non soltanto la libertà di navigare, di leggere, di informarsi, in una parola, di essere ancora e sempre tributari del sapere altrui, ma anche la libertà per l’internauta di pubblicare, di editare un testo, la possibilità che gli viene offerta di mettere a sua volta le proprie informazioni a disposizione del pubblico?

C’è comunque una certa coerenza in tutto ciò. Perché trattandosi di reti, c’è una certa logica all’opera da quando esse sono entrate nello spazio pubblico. Ha un nome banale che è sulla bocca di tutti: commercio elettronico. Vediamo di precisare. Non il commercio in quanto tale, il commercio che non vorrebbe curarsi che di se stesso, che vorrebbe occuparsi solo degli affari e di nient’altro, e dal quale ci si potrebbe attendere che, incidentalmente, giungano sviluppo e piena occupazione. No, la logica in oggetto è quella di un incrocio fra commercio e libertà, o meglio, di un travalicare del primo rispetto alle seconde. Si tratta del commercio in quanto norma che va ad occuparsi, spesso senza neppure averne coscienza, di un ambito che non è il suo — quello del diritto all’informazione e, più in generale, delle libertà fondamentali. E’ l’approccio adottato anche dalla Commissione europea, che in una stessa proposta di direttiva sul commercio elettronico mette fianco a fianco l’identificazione delle comunicazioni commerciali — e quindi il diritto dell’economia — e la responsabilità dei fornitori di accesso e di servizi — e quindi, di fatto, la libertà di espressione.

Mischiando in questo modo orientamenti che, seppure non contrastanti, dovrebbero rimanere distinti gli uni dagli altri, il diritto rischia (come si è visto lo scorso 22 marzo) di partorire costruzioni ibride, e in futuro forse ancora più problematiche. Non era certo questa l’intenzione del Governo.

La regola dovrebbe essere semplice: per quanto attiene alla libertà di espressione, non dovrebbe esistere alcuna censura preventiva. Il controllo non può che essere esercitato a posteriori. Bene, sappiamo tutti che c’è qualcosa di peggiore della censura: è l’autocensura. Nel caso specifico si tratta del timore di esporsi, di offendere, di dispiacere, anche se il messaggio messo in Rete è perfettamente legale.

In tal modo ci si priva anche di una grande ricchezza creativa. Perché pubblicare sotto pseudonimo, anche in forma anonima, a titolo professionale o meno, non significa il rifiuto di assumersi la responsabilità di quanto scritto. Vuol dire, senza alcun dubbio, crearsi una nuova identità, un’identità — si potrebbe dire — virtuale.

In quanto cittadino — in questo caso della Rete, e pienamente legittimato a trovarvisi — chi mi impedirà di crearmi una nuova identità? Chi potrà obbligarmi a dichiarare chi sono per avere il diritto di parlare? Nessuno. Altrimenti bisogna smettere di parlare di libertà.

(Ndr: articolo pubblicato su Libération del 7 aprile 2000)