dott. Marco Massimini – Amministratore Unico e Project Manager di Privacy.it

Pubblicato in data 12-12-2018

Lo smartphone as a sensor come nuova frontiera insuretech per il monitoraggio comportamentale del conducente. Breve viaggio tra opportunità e profili di privacy.

Il comparto assicurativo ha già da tempo individuato nella usage-based insurance (UBI) la naturale evoluzione delle proposte RC auto. Il motivo è molto semplice: posto che il contratto di assicurazione prevede per sua stessa natura la valutazione di alcuni parametri soggettivi riguardanti il cliente, una maggiore conoscenza dell’effettivo utilizzo del veicolo e il monitoraggio dello stile di guida aiutano a customizzare l’offerta in modo più efficiente.

Un recente studio di Frost & Sullivan rivela che le polizze UBI sono in forte crescita, e per il 2020 ci saranno oltre 100 milioni di contraenti che vi avranno aderito (specie in USA, UK e Italia).

Da un parte, tutti i guidatori desiderano fortemente risparmiare sui costi della polizza auto (lo dimostra, peraltro, il successo dei siti specializzati in comparazione dei preventivi sulle polizze). Dall’altra, tutti gli assicuratori mirano a tarare il prezzo su un calcolo del rischio più accurato possibile (prediligendo, ovviamente, il driver virtuoso rispetto a quello pericoloso). Questa convergenza di interessi tra consumatore e venditore appare frustrata nell’applicazione del modello tradizionale, ove il calcolo di rischi e premi correlati è basato su un insieme di informazioni che appare eccessivamente statico. Tra queste possono esser sinteticamente annoverate:

  • la classificazione del veicolo: modello, anno di immatricolazione, chilometraggio, presenza di antifurto o ricovero notturno;
  • l’inquadramento del contraente/conducente: età, sesso, anno della patente, luogo di residenza;
  • la storia assicurativa: la Classe Universale di assegnazione (fattore per antonomasia determinante per l’applicazione della tariffa secondo il meccanismo bonus/malus), il numero di sinistri/anno (con colpa, senza colpa o paritaria), anzianità assicurativa, e così via.

Queste informazioni, nell’odierno contesto socio-economico che ormai macina miliardi di dati personali per frazione di secondo, sembrano esser diventate esigue ed insufficienti rispetto al fine. Paiono, in qualche modo, appartenere ad un business model superato perché poco rivelano sull’attualità del rischio ed hanno un valore non sufficientemente predittivo.

C’è un neologismo ormai invalso per definire tutto ciò che – tra sharing economy/mobility, cybersecuirty, big data, Internet of Things, intelligenza artificiale e blockchain – è innovazione tecnologica nell’industria assicurativa: insuretech. Ed è questo il territorio che le compagnie stanno esplorando alla ricerca di strumenti utili per raffinare, reinventare o innovare le proprie proposte commerciali, comprese quelle riguardanti le coperture per responsabilità riconnesse alla circolazione stradale.

In un’era in cui tutto è interconnesso appare, allora, comprensibile l’afflato delle compagnie assicurative teso a reperire un novero di dati non solo maggiore ma anche sempre più attualizzato ed individualizzato: va bene lo scorage derivante dall’inquadramento iniziale del cliente e dalla sua storia assicurativa, ma sono le condotte correnti il fattore che più può informare correttamente la determinazione del binomio rischio/premio. E niente più di una tecnologia telematica e connessa può soccorrere sul punto.

Negli ultimi anni diverse assicurazioni hanno inserito a listino offerte di usage-based insurance (UBI) non solo nella formula Pay per Use o Pay as You Drive (premio tarato sull’effettivo utilizzo chilometrico del veicolo), ma anche nella formula Pay How You Drive (PHYD), ossia con criteri che prendono in considerazione abitudini e condotte del conducente. Tali proposte devono necessariamente avvalersi di strumenti di monitoraggio automatizzato che interconnettano veicolo e assicuratore e che, attraverso il raffronto algoritmico con i big data, contestualizzino il livello di rischio tenendo conto del fattore comportamentale.

Insuretech basata sull’installazione di una scatola nera

L’implementazione del modello PHYD ha principalmente eletto in un’apposita black box (da installare sulla propria auto) il device deputato a riportare informazioni in tempo reale alla compagnia. La black box assicurativa, nella sua versione standard, è un dispositivo satellitare dotato di un geo-localizzatore (utile anche in caso di furto) e di un accelerometro in grado di registrare tutti i movimenti del veicolo; il tutto connesso ad una centrale remota, in genere tramite una SIM card inserita nella scatola.

Ai fini dell’aggiornamento del premio, i dati più rilevanti scaturenti dalla black box sono il chilometraggio medio (effettivo utilizzo), le zone frequentate (aree a rischio o meno), lo stile di guida (ad es. velocità, modo di accelerare/frenare), eventuali informazioni utili a riscostruire la dinamica di un sinistro (un bel deterrente anti-frode, oltre che dati utili per accertare responsabilità).

Nord America ed Europa sono stati i continenti pionieri di questa rivoluzione. Curiosamente, l’Italia nel 2017 è risultata essere la prima al mondo per tasso di penetrazione di queste scatole nere (circa il 16% delle auto circolanti ne è dotato) e seconda per numero totale di auto che le montano (oltre 6 milioni, dietro gli USA con 12 milioni). Nel nostro paese, dunque, sotto il profilo meramente commerciale si è realizzato un effetto “win-win” per tutte le parti in gioco: le compagnie inquadrano meglio il conducente (definendo con maggior accuratezza il rapporto tra rischio e premio), mentre l’assicurato gode di una scontistica tangibilmente vantaggiosa (specie al sud, dove il premio medio è più alto, si può risparmiare fino al 60%).

Sotto il profilo della tutela della privacy degli automobilisti non sono mancate le polemiche. L’anno passato, l’ANEIS (Associazione Nazionale Esperti Infortunistica Stradale) ha lanciato l’allarme sostenendo che “l’installazione della scatola nera sul veicolo rappresenta una vera e propria invasione della privacy di cui evidentemente gli assicurati non comprendono la portata. In grave pericolo è la tutela della riservatezza e della privacy personale, in quanto i dati registrati dalla scatola nera possono essere divulgati senza il consenso del proprietario del veicolo”. Oltre a ciò, secondo l’ANEIS “la gestione e la vendita di tutti questi dati è destinata a diventare una nuova area di business per le imprese di assicurazione, senza alcun vantaggio per gli assicurati”.

L’ANIA aveva prontamente negato che vi fosse alcun pericolo per la privacy: “Tutti i dati vengono trasmessi aggregati e l’assicurato firma il modulo per la tutela approvato dal Garante della privacy. Chi sostiene che la scatola nera violi la privacy dice una cosa inesatta“. Inoltre, “l’evoluzione delle scatole nere porta oggi a avere dispositivi che sono più avanzati tecnologicamente e che trasferiscono le informazioni in modo criptato. C’è poi un’informativa che viene data all’assicurato da parte della compagnia che lo tutela sotto tutti gli aspetti della riservatezza“. Questo perché “vengono conosciuti dalla compagnia soltanto i dati e le informazioni che l’automobilista autorizza a far conoscere“, infatti – secondo l’ANIA – i dati raccolti dalle black box “possono essere relative allo stile di guida e alle percorrenze. Attraverso le quali la compagnia riesce a profilare meglio il cliente e a fornirgli un premio di polizza che è più vantaggioso per il cliente stesso. Tutto il resto sono soltanto informazioni a livello aggregato che la compagnia non può utilizzare se non per fini legati all’eventualità di incidenti“.

Sono oltre 20 in Italia le società che propongono coperture PHYD basate sull’installazione di una scatola nera. Per limitarci ad un solo esempio, non possiamo che riferirci alla più grande compagnia assicurativa italiana (terza al mondo per fatturato). Il dispositivo satellitare introdotto da Generali nel 2016 si chiama “Real Time Coaching” si monta sul parabrezza e, grazie ad un led multicolore, interagisce con il guidatore informandolo del proprio stile di guida: temerario, equilibrato o evoluto. In caso di forti accelerazioni o di brusche frenate il led si illumina di viola per 4 secondi durante la guida. Il cliente può visualizzare quotidianamente il livello del proprio stile di guida attraverso grafici e contatori direttamente da pc sul proprio profilo clienti nel sito Generali e/o attraverso un app per tablet o smartphone. Per quanto concerne la restituzione di dati real time alla compagnia, la black box monitora cinque parametri di guida che permettono di ottenere uno sconto sulla polizza al suo rinnovo:

  • Percorrenza: chilometri percorsi (media e totale);
  • Tipo di strada: tipologie di strade percorse con frequenza (urbana, extraurbana o autostradale);
  • Uso quotidiano: momento del giorno in cui viene utilizzata maggiormente l’auto;
  • Uso settimanale: la percorrenza maggiore tra feriali, weekend e festivi;
  • Stile di guida: forti accelerazioni e frenate.

Oltre a ciò, la scatola nera di Generali è dotata di pulsante di emergenza per richiedere l’assistenza alla centrale operativa, mentre, in caso di collisione, la scatola nera invia automaticamente una segnalazione alla centrale che potrà verificare l’accaduto chiamando in vivavoce il conducente ed eventualmente inviare i soccorsi. In caso di furto il dispositivo consente di geolocalizzare il veicolo, grazie alla tecnologia GPS, e di bloccare l’avviamento del motore limitandone la mobilità.

Se la black box realizza, di fatto, un collegamento telematico diretto tra auto e compagnia assicurativa, è naturale che i due mondi elaborino strategie commerciali congiunte. Recentemente i due principali player italiani dei rispettivi settori, Fiat Chrysler e – appunto – Generali, hanno annunciato in una lettera di intenti l’avvio di una partnership per la mobilità connessa in cui un ruolo strategico lo avrà proprio la black box “Real Time Coaching”.

Insuretech da connettere alla porta di diagnostica

Ogni auto moderna ha una sistema di autodiagnostica (on-board diagnostic – OBD) cui – tramite un’apposita porta (OBD-II port) – possono essere collegati dei lettori esterni (dongle). Se connessi con l’assicurazione, questi lettori possono informare su qualsiasi accadimento sia rilevato dal sistema di bordo e, quindi, sullo stile di guida del conducente. Stile cui possono, ovviamente, essere riconnessi sconti o penalizzazioni in base al comportamento rilevato.

La Progressive Corporation, uno dei maggiori assicuratori auto USA, ha lanciato il proprio dispositivo Snapshot nel lontano 1998 e durante il ventennio ormai intercorso milioni di guidatori alla ricerca di tariffe più convenienti sono diventati clienti. Nel 2015 il successo ebbe un inquietante intoppo quando un ricercatore scoprì che il dongle di Progressive era accessibile dall’esterno a causa di un sistema di trasmissione dati non adeguatamente protetto (traffico non criptato, firmware minimale, ed altro ancora); secondo lo studio, un eventuale hacker avrebbe potuto non solo conoscere tutte le consuetudini di guida di un assicurato ma anche prendere controllo del veicolo. Progressive corse ai ripari, superò quel brutto momento e oggi continua a proporre con successo le proprie assicurazioni PHYD.

In diversi hanno seguito questa strada. Ma non solo compagnie d’assicurazione, ci sono società telematiche che offrono direttamente ai conducenti il dongle utile a “strappare” condizioni vantaggiose alle assicurazioni disposte a premiare chi ne è dotato.

Insuretech basata su connettività di serie

Toyota ha di recente stretto un accordo con Aioi Nissay Dowa Insurance introducendo sul mercato giapponese la prima assicurazione telematica basata sullo stile di guida. La polizza è riservata solo ai possessori di alcuni modelli di connected-car Toyota o Lexus e, a differenza della black box per come sopra intesa e del dongle OBD, non necessita dell’installazione di un hardware ulteriore. L’assicurazione sfrutta, infatti, il Data Communication Module (DCM) che in questi veicoli smart è già parte integrante del cuore machine learning del sistema di infotainment e auto-diagnostica. Anche qui, la proposta prevede – tra le varie funzioni – la segnalazione in diretta di correzioni per lo stile di guida, la disponibilità di reportistica aggiornata sullo score di rischio, l’interazione con un centro assistenza in caso di incidente (e se la telemetria e gli altri sensori dell’auto riterranno che si tratti di un incidente grave partirà un input al team di emergenza che chiamerà il conducente per verificare che sia cosciente e di quale soccorso necessiti). Sottoscrivendo questa copertura il contraente con punteggio virtuoso potrà risparmiare fino all’80% della quota premio basata sul monitoraggio comportamentale.

L’opportunità derivante dalla centralità dello smartphone nella società digitale

Il mercato delle assicurazioni telematiche sta esplorando nuove soluzioni tecnologiche per riuscire più accuratamente a monitorare e profilare il contraente/conducente. Tra queste, si sta facendo largo l’idea di eleggere quale “informatore privilegiato” non una black box installata o un sistema intelligente integrato nel veicolo, non un dispositivo nato per l’automobile, ma un device che accompagna l’individuo in ogni momento della sua esistenza: lo smartphone.

Un’idea, questa, pienamente in linea con il trend globale che identifica nello smartphone del cliente il principale hub su cui innestare e “far girare” i servizi B2C (Business to Consumer) personalizzati.

A questo punto del discorso – ossia quando diamo per scontato che è normale che un venditore voglia monitorare qualcosa nel nostro telefono – conviene fermarsi un attimo per una breve riflessione, utile per quanto scontata: è davvero stupefacente la velocità con cui lo smartphone si è impossessato delle nostre vite. Cambiandole per sempre.

Era il 29 giugno del 2007 quando il primo iPhone sbarcò nei negozi USA. Dal 2007 sono stati venduti 8,5 miliardi di smartphone (più della popolazione del pianeta), 1 miliardo e mezzo di esemplari solo nel 2017. In poco più di 10 anni, lo smartphone ha trasformato il modo di vivere degli individui e rivoluzionato il mondo. Se la prima telefonia mobile di massa (TACS o GSM) aveva radicalmente cambiato il nostro modo di comunicare a distanza, l’impatto dello smartphone sulla società è di portata assai più ampia. Trattasi di un’innovazione disruptive, dagli effetti dirompenti su tutto e tutti.

Pensiamo solo ad alcuni dei “pensionamenti” precoci causati dallo smartphone negli ultimi anni:

  • l’85% delle immagini al mondo è oggi generato tramite cellulare (“uccise” in men che non si dica le vecchie macchine video-fotografiche e le loro neonate presunte eredi, le digital camera);
  • gran parte della musica si ascolta – tramite i vari Spotify, iTunes, YouTube, etc. – con auricolari o amplificatori collegati al telefono (ormai estinti i lettori cd e i loro presunti eredi, iPod e affini);
  • gli SMS (quasi azzerati da Whatsapp e altre app di instant messaging) sono già uno sbiadito ricordo della rivoluzione che fu.

In questo breve arco temporale, lo smartphone è divenuto un’estensione della nostra persona. Secondo uno studio del 2016, ogni giorno – tra aperture, digitazioni, scorrimenti, etc. – tocchiamo il nostro dispositivo oltre 2.500 volte, dedicandovi la nostra attenzione in almeno 75 differenti sessioni, trascorrendovi complessivi 145 minuti in attiva interazione con lo strumento. Questi i dati sull’utilizzo medio, le statistiche relative agli heavy users vanno quantomeno raddoppiate.

Negli ultimissimi anni, il mobile phone divenuto intelligente sta anche superando largamente (vedi qui il consumer barometer di Google) il computer come strumento di navigazione Internet e, di conseguenza, come strumento d’accesso ai servizi online.

Oggi il nostro “telefonino” è:

  • la nostra primaria fonte di informazione su quel che fanno gli altri (quante sbirciatine sui profili social altrui) e sul quel che accade nel mondo (la maggioranza di noi ormai apprende le news solo online);
  • il primo strumento con cui il cittadino moderno e digitalizzato prende quotidianamente decisioni o effettua transazioni. Sono ormai sufficienti poche digitazioni sul display per fare tutto o quasi: ordinare la spesa o una cena a casa, acquistare un vestito, inviare una job application, riservare un car-sharing, prenotare una TAC, effettuare un bonifico, pagare un F24, videochiamare un amico agli antipodi, riservare un volo o un hotel o un ristorante;
  • la principale scatola in cui custodiamo memorie personali, relazioni intime e professionali, progetti, spostamenti, transazioni economiche, prenotazioni, appuntamenti, corrispondenze, segreti.

Il nostro telefono contiene informazioni che possono delineare chi siamo in maniera molto accurata: è il nostro miglior biografo e la sua intelligenza artificiale interconnessa sa mettere insieme la miriade di tracce elettroniche che rilasciamo nel tempo. La sua capacità di calcolo potrebbe preconizzare dove saremo tra una settimana oppure potrebbe delineare un quadro preciso delle nostre propensioni, inclinazioni, abitudini.

Insomma, quell’incredibile concentrato di tecnologia vive in simbiosi con la persona che lo possiede ed è uno scrigno di informazioni preziosissime. Considerato che ciascun individuo è un consumatore e che la vita del consumatore è divenuta smartphone-centrica, gli operatori B2C si trovano davanti ad un’opportunità senza precedenti; non c’è, dunque, da stupirsi se questi desiderano accedere al nostro smartphone per asservirne processori e sensori alle proprie finalità.

Per cogliere questa opportunità, molti operatori dei più svariati settori commerciali hanno già sviluppato – secondo le proprie esigenze – differenti strategie. Queste trovano comunemente esito in un’applicazione che l’utente deve scaricare e installare. Ogni app presenta specifiche modalità di interazione con le diverse funzionalità dello smartphone e, talora, con le altre applicazioni presenti nel dispositivo.

Nell’universo delle app ci sono quelle dei player nativi dell’economia digitale. Specie nella cosiddetta gig economy, l’app è il presupposto stesso del servizio (si pensi, inter alia, ad Uber o Deliveroo: senza app non avrebbero quasi ragione di esistere) e dunque non c’è da stupirsi se presentano livelli di interazione avanzati. Quelli che erano già giganti dell’e-commerce “in versione desktop” (si pensi, tra tanti, ad Amazon o Zara) hanno lanciato app per ottimizzare ed arricchire una customer experience già molto personalizzata.

Altri mondi invece hanno avuto un approccio al mobile un po’ più prudente. Ancora oggi la maggioranza delle app assicurative si propone ancora come una sorta di area riservata per la consultazione/gestione della documentazione contrattuale (polizza, avanzamento pratiche sinistri, pagamenti) e, al limite, per l’attivazione dell’assistenza stradale.

Ma qualche compagnia incomincia a dispiegare a pieno la propria visione sul punto. Una visione che necessariamente individua nello smartphone lo strumento di pronto uso su cui incentrare l’evoluzione del proprio business model.

Cerchiamo, allora, di capire come e perché la condivisione dei dati rilevati dallo smartphone può assurgere a fattore che incide profondamente sia sulle condizioni della polizza sia sulle possibilità di interazione digitale tra assicuratore e assicurato.

Insurtech basata sullo smartphone utente

I cellulari moderni sono dei veri e propri gioielli hi-tech dotati di un elevato quantitativo di rilevatori super raffinati che riportano ad un’intelligenza artificiale sempre più evoluta. Tra sistemi di riconoscimento biometrico, GPS, accelerometri, giroscopi, magnetometri, termometri, sensori di prossimità e di luce, oggi anche uno smartphone di fascia media è in grado di raccogliere, organizzare e condividere una serie infinita di informazioni. Se ci stiamo muovendo a piedi, il nostro telefono sta acquisendo informazioni sul dove, quando, verso quel destinazione, a che velocità, con quali traiettorie, e in taluni casi facendo cosa (ad es., messaggiando, postando su un social, leggendo un articolo, ascoltando un file audio, avviando un gioco, guardando un video in streaming o la gallery delle nostre foto).

Una volta entrato nell’abitacolo di un auto, un “normale” dispositivo personale di telefonia mobile può dunque trasformarsi in uno smartphone as an insurtech sensor, ossia una tecnologia funzionale al contratto di assicurazione intesa a tracciare ed inviare una serie precisa di dati. Qualche compagnia si è già mossa per sfruttare queste funzionalità.

Nel 2016 la compagnia Zuritel aveva ottenuto l’autorizzazione del Garante – condizionata all’introduzione di misure correttive, specie in tema di informativa e conservazione dei dati – per l’adozione di un sistema di monitoraggio dello stile di guida basato su un’applicazione per smartphone (“SAYD – Save as You Drive”). Per poter utilizzare l´applicazione, l´utente deve fornire una serie di dati (nome, cognome, e-mail, password, numero di telefono cellulare, tipo di vettura) leggendo i termini e le condizioni di utilizzo dell´applicazione e l´informativa privacy, conferendo anche distinti e specifici consensi. Ciò, per la finalità primaria del monitoraggio del comportamento di guida (la rilevazione del numero di frenate e accelerate brusche, del numero di inversioni a U, della velocità e della tipologia di strada percorsa), connessa anche al possibile ottenimento di un voucher sconto. Qualora l´automobilista vi acconsenta specificamente, i dati possono poi essere utilizzati per ottenere il dettaglio dei percorsi effettuati (al fine di identificare i punti in cui si siano verificati eventi di guida potenzialmente pericolosi) nonché per l´invio di comunicazioni commerciali.

Ma rispetto a queste informazioni, in qualche modo similari a quelle di una rilevabili da una black box, lo smartphone as a sensor può “regalare” alle assicurazioni un’ulteriore tipologia di dati, molto preziosa: quella derivante dal monitoraggio dell’utilizzo che il conducente fa del proprio telefono. Sono informazioni di grande interesse per le compagnie, e il motivo è facilmente immaginabile.

Tutti sanno quanto sia pericoloso un utilizzo “attivo” del telefono mentre si è al volante. In ordine crescente di gravità, chiunque può intuire che quando si guida è molto imprudente:

  • effettuare chiamate tenendo il telefono in mano (o, altrettanto pericoloso, incastrato tra spalla e orecchio);
  • consultare un testo o un video sul display;
  • scrivere messaggi, farsi un “selfie” o effettuare una videochiamata.

Ma, evidentemente, non tutti prendono la questione sufficientemente sul serio. E i dati sono davvero allarmanti.

La distrazione è diventata nell’ultimo decennio la prima causa di sinistri stradali e l’uso del telefono alla guida è alla base di buona parte di questi incidenti, anche mortali. Secondo il National Safety Council americano il 27% degli incidenti sono causati da un uso improprio del cellulare. Nel 2017, rileva l’Istat, sono stati 35.000 su 223.000 (ossia, il 15% del totale) gli incidenti in Italia provocati da un’indebita interazione conducente/smartphone. Diversi studi condotti da Polstrada, ANAS (che sul punto ha avviato la campagna #GUIDAEBASTA 2018) e ANIA svelano che:

  • scrivere un breve messaggio equivale a 10 secondi di distrazione e a percorrere 300 metri senza guardare la strada, fare un selfie distrae dalla guida per 14 secondi;
  • per consultare un social network ci vogliono 20 secondi (a 100km/h significa percorrere cinque campi da calcio al buio);
  • il rischio di incidente per chi utilizza il cellulare o smartphone durante la guida è fino a 4 volte superiore rispetto a chi non ne fa uso;
  • i tempi di reazione di chi guida e contemporaneamente usa un dispositivo elettronico si riducono del 50%;
  • per fermare il proprio veicolo mentre si sta parlando al telefono con il cellulare o smartphone in mano occorrono 39 metri a fronte di 8 se invece si usa auricolare o kit vivavoce;
  • usare un dispositivo elettronico abbassa la soglia di attenzione rendendola simile a quella di chi guida con un tasso alcolemico di 0,8 g/litro (il limite è 0,5).

Per questi motivi, non stupisce che le compagnie assicurative più evolute vedono nello smartphone il nuovo strumento per tracciare lo stile di guida del conducente, calcolare dinamicamente il rischio individuale e riconnettervi le quote variabili del premio.

Arity, società di servizi insuretech del gigante assicurativo americano Allstate, a fine 2017 si è lanciata con decisione su questo modello di business. La società ha dapprima analizzato oltre 160 milioni di viaggi in auto effettuati da migliaia di contraenti Allstate che hanno volontariamente partecipato all’indagine scaricando l’apposita app sul proprio smartphone. Sfruttando i sensori installati nel dispositivo utente (specie accelerometro e giroscopio), l’applicazione ha potuto analizzare l’utilizzo effettivo del telefono alla guida: se è tenuto in mano o meno, se è sbloccato, quanti e quali app sono in uso. Lo studio è stato poi incrociato con un’approfondita analisi delle pratiche Allstate sui sinistri stradali dovuti a distrazione. Le conclusioni cui è giunta Arity hanno evidenziato come i conducenti che usano lo smartphone alla guida costino il 160% in più rispetto ai clienti prudenti e rispettosi delle regole.

La conseguenza è ovvia: monitorare lo smartphone può essere la chiave di volta per colmare buona parte di quella “asimmetria informativa” che impedisce all’assicurazione di meglio inquadrare il singolo contraente di polizza auto. Ed ecco perché le insurance solutions di Arity ora prevedono proposte tecnologiche che, mixando criteri tradizionali al monitoraggio del telefono, permettono di ottimizzare la determinazione del premio, di penalizzare o premiare i conducenti a seconda dello stile di guida. Il tutto, ovviamente, accompagnato da servizi ancillari via app come l’invio di allerte in tempo reale (meteo, traffico o incidenti), suggerimenti per una guida sicura, reportistica continua ed incentivazioni, ed altro ancora.

Ma Arity non è l’unica. La già citata Progressive ha lanciato un’app PHYD con funzionalità di smartphone tracking sviluppate da True Motion di Boston (qui una presentazione) che affianca la ormai ventennale proposta basata sui dati trasmessi dal dongle OBD.

Negli ultimi tempi si assiste ad un florilegio di start-up che sviluppano soluzioni insuretech basate sul coinvolgimento attivo dello smartphone utente e che propongono alle compagnie la fruizione del prodotto in modalità X as a service (XaaS, dove la X sta per qualsiasi cosa: app, software, piattaforma). In ossequio a questo trend, molte assicurazioni – anziché sviluppare un prodotto totalmente proprietario, con i relativi costi – preferiranno customizzare sistemi ready-to-use.

Vale la pena portare qualche esempio. Drivewell di Cambridge Mobility Telematics è una soluzione di behavior-based insurtech a disposizione delle compagnie assicurative a stelle e strisce (qui una presentazione). FloowDrive della britannica The Floow si propone come un soluzione telematica flessibile e facilmente adottabile ai sistemi di qualunque compagnia voglia offrire una usage-based insurance basata sui dati inviati dallo smartphone del cliente (qui, sul tema, una video intervista al CEO italiano della società). Octo Telematics propone una intera piattaforma di servizi tecnologici per l’assicurazione auto che promettono – tra IoT, intelligenza artificiale e analisi dei big data – di rivoluzionare il business delle compagnie che ne vorranno fruire. Lo stesso si può dire per Zendrive, tra le prime ad aver puntato tutto sulla centralità dello smartphone. La cinese Ok Drive (qui una presentazione) sta “pionierizzando” l’offerta di auto-insuretech nell’immenso mercato locale.

Altre ancora se ne potrebbero citare, non tutte con il medesimo approccio. Ad esempio, la start-up italiana Air S.r.l. sta proponendo una smart driving app pensata per fornire tutta una serie di servizi di interesse per il proprietario del veicolo (quali segnalazioni antifurto, car finder, report giornalieri sulla guida e sullo stato dell’auto, assistenza in caso di emergenza e altro ancora) in un più ampio progetto che prevede l’offerta di servizi a valore aggiunto per i vari operatori automotive (assicurazioni, costruttori, concessionarie, officine, gestori di flotte) basati sull’elevata capacità di analisi dei dati raccolti.

Il breve excursus tra le diverse soluzioni emergenti dimostra che il pianeta dei servizi telematics and analytics sta rapidamente convergendo su quello del mercato assicurativo (o viceversa) per allinearsi in partnership. La sinergia mira ad eliminare alcune importanti inefficienze di sistema che, ad avviso di molti analisti, sono dovute all’ancor timida opera di profilazione del cliente, all’insufficiente alimentazione dei modelli predittivi e alla scarsa incisività dei sistemi anti-frode. Deficit informazionale che, in tema di polizze auto (e in attesa che tutti i veicoli diventino vere e proprie IoT pienamente interconnesse con ambiente e persone), può essere ampiamente corretto “penetrando” negli smartphone dei clienti ed “ascoltando” i suoi sensori. E per le compagnie assicurative, il bello di questa prospettiva è che l’hardware dedicato al monitoraggio dello stile di guida è disponibile e pronto all’uso perché l’utente se l’è già pagato da solo e lo porta sempre con sé.

L’interesse delle compagnie ad un coinvolgimento attivo dello smartphone del cliente si innesta in un panorama che vede l’insurtech quale settore in piena espansione. I dati degli studi più recenti (leggi qui su Insurezine) rivelano che nel 2018 la raccolta fondi per le start-up attive in quest’ambito ha già raggiunto il massimo storico con 204 operazioni totali per 2,6 miliardi di dollari. L’87% delle operazioni sono state svolte da acquirenti strategici, mentre solo il 13% è stato caratterizzato da interventi di private equity.

Secondo gli esperti di settore, le compagnie che non si evolveranno in fretta verso questi orizzonti rischiano grosso: non aggiornare i propri modelli commerciali sfruttando le vaste opportunità messe a disposizione dalla digital society, può condurre rapidamente ai margini del mercato. Sarebbe, infatti, reale il rischio di perdere velocemente clienti a favore di competitor più aggressivi che possono permettersi di offrire alla platea forti sconti (o incentivi di vario genere) grazie – nel ramo assicurativo qui in esame – al monitoraggio dello smartphone e all’analisi di big data scaturenti anche dalle app installate da tutti gli altri contraenti.

I vantaggi competitivi per le compagnie che decidessero di intraprendere questa strada sono piuttosto evidenti. Per loro resterebbe il tema di dover convincere i clienti (e potenziali clienti) a rendere il proprio smartphone accessibile e tracciabile.

I benefici prospettabili al contraente

Sul piano della comunicazione commerciale, quali sono gli argomenti che possono convincere un potenziale cliente a cedere un significativa quota della propria privacy? Quali vantaggi si possono prospettare a chi permette che il proprio device personale divenga un informatore per conto terzi?

Un primo argomento, di ordine generale, può essere il fascino emanato dall’innovazione stessa. Ai consumatori – specie a quelli più giovani – piace quando un processo (magari percepito come troppo burocratico) viene semplificato grazie alla digitalizzazione; la cosa è ancor più gradita se il cliente ha l’impressione di controllarne in qualche modo le sorti o, comunque, gli si prospetti un maggior grado di coinvolgimento. I millennial e i nativi digitali troveranno sicuramente più cool un prodotto assicurativo interamente gestibile tramite smartphone.

Ciò premesso, l’argomento principale è certamente il risparmio. Non v’è dubbio che la disponibilità al monitoraggio via smartphone debba essere premiata con un tangibile vantaggio economico al contraente. Questo si potrebbe palesare già in fase di offerta: un entry price molto favorevole può catturare l’attenzione dei potenziali clienti e disinnescare le loro eventuali preoccupazioni per una maggiore invasione nella propria vita privata. Oltre a ciò, si possono prospettare vantaggi per il proseguo del rapporto: laddove il monitoraggio dell’utilizzo effettivo del veicolo e dello stile di guida rivelasse una scarsa propensione al rischio, la compagnia può accordare ulteriori sconti sul rinnovo della polizza.

La proposta potrebbe farsi ancor più interessante se la compagnia decidesse di introdurre una formula di dynamic pricing ancor più serrata: ad esempio, anziché una volta all’anno, il premio potrebbe essere pagato mensilmente con tariffazione variabile a seconda dello score conseguito dal conducente e segnalato dall’app nel relativo periodo. Questi meccanismi potrebbero coinvolgere ulteriormente il contraente nella logica Pay How You Drive apportando al rapporto aspetti quasi ludici: sarà invogliato a consultare in maniera più assidua il ranking conseguito e spinto (sempre dalla prospettiva di risparmio sul breve periodo) a migliorare le proprie performance.

La possibile attivazione di un circolo virtuoso in tema di sicurezza stradale è una positività che può essere parimenti prefigurata agli interessati. La prospettiva “meglio guidi più risparmi” può spronare i guidatori ad una maggiore attenzione (e, parimenti, fungere da deterrente per i conducenti distratti o aggressivi). Se vi fosse un adesione su larga scala a questo modello di assicurazione, in un futuro prossimo la circolazione potrebbe essere animata da driver maggiormente concentrati perché desiderosi di ottenere vantaggi (un tempo inesistenti) collegati al mantenimento o miglioramento dello score individuale. Dunque, la sottoscrizione di una behavior-based insurance significherebbe una maggiore sicurezza per sé e per gli altri: un aspetto ben spendibile in termini di communication strategy.

Altri fattori di richiamo potrebbero essere le extra-feature che possono ulteriormente arricchire l’esperienza digitale dell’assicurato.

Tra queste si annoverano sicuramente i programmi di coaching che aiutano a migliorare il proprio stile di guida, con suggerimenti in diretta e/o tramite sessioni formative separatamente fruibili (via app o su area riservata sul sito della compagnia). Gli insegnamenti sono basati sull’analisi degli errori o delle imprudenze rilevate tramite lo smartphone utente. E nulla vieta che un contributo formativo possa provenire da eventuali sezioni dell’app dedicate alla gamification: simulatori di guida, quiz sulla sicurezza stradale o sulle nozioni di primo soccorso, etc.

Lo smarthone as a sensor e la relativa app assicurativa sono un ecosistema in grado di veicolare altri servizi graditi al pubblico quali allerte meteo o traffico, linea diretta con assistenza stradale, messaggi automatizzati d’emergenza in caso di grave impatto, gestione rapida dello scambio delle generalità, semplificazione delle pratiche di sinistro, e quant’altro possa già oggi o in futuro ritenersi utile.

Ovviamente, per concludere, una volta guadagnata la posizione tra le icone principali del telefono, la compagnia potrà sfruttare l’app per coinvolgere più agevolmente il cliente nelle tradizionali attività di marketing: inviare messaggi promozionali relativi ad altri prodotti assicurativi o ad offerte “dedicate” dei propri partner.

La compliance di privacy come elemento indefettibile e strategico

Gli operatori economici che desiderano sviluppare o adottare soluzioni come quelle sopra illustrate sono chiamati ad una scrupolosa quanto impegnativa opera di adeguamento in tema di data protection perché hanno a che fare con tecnologie tracciano dispositivi individuali e raccolgono in maniera reiterata informazioni estremamente personali.

In un momento storico in cui la privacy si è guadagnata il proscenio mediatico nonché l’attenzione di imprese e cittadini di mezzo mondo, c’è da presupporre che nessuno (o quasi) sottovaluti la tematica e si auspica che le app, i sistemi di trasmissione dati e, più in genere, le soluzioni Pay How You Drive basate sul monitoraggio dello smartphone utente siano implementante nel pieno rispetto delle normative in materia di protezione dei dati personali.

In particolare, le compagnie assicurative e le società insurtech che desiderano rivolgersi al mercato europeo dovranno vantare un management ed un DPO che siano pienamente consapevoli dei termini della questione e che, di conseguenza, siano in grado di imporre il pieno rispetto delle regole imposte dal Regolamento (UE) 2016/679 – GDPR. Senza dover qui elencarle tutte, rileveranno in particolare:

  • l’osservanza dei principi di “privacy by design” e “privacy by default” già in sede di progettazione della soluzione tecnologica e dei processi che vi ruoteranno intorno;
  • il censimento di tutte le macro attività sui dati e la istruzione di un registro dei trattamenti;
  • l’esecuzione di un doveroso quanto approfondito Data Protection Impact Assessment, almeno con riferimento ai trattamenti critici per i diritti e le libertà degli interessati;
  • la conseguente adozione di misure di sicurezza a protezione dei dati secondo i più elevati standard disponibili (con particolare attenzione alle misure perimetrali anti-hacking e alla crittografia delle trasmissioni);
  • l’introduzione di accurate Data Retention Policy in relazione singole tipologie di dati;
  • la stesura di ferrei Data Processing Agreement sia con i fornitori strategici che hanno accesso ai dati (con pari vincoli per eventuali sub-fornitori) sia a livello inter-company in caso di condivisione dei dati con altre legal entity di un medesimo gruppo di imprese;
  • la regolamentazione per legittimare eventuali data transfer extra UE;
  • la formazione e sensibilizzazione del personale;
  • la configurazione di un sistema di autorizzazione informatica secondo il principio del privilegio minimo indispensabile;
  • la strutturazione di informative tanto complete quanto comprensibili, sia per quanto riguarda le funzionalità dell’app che per quanto riguarda il rapporto contrattuale;
  • la raccolta documentata di tutti i consensi che l’interessato deve rilasciare per le diverse finalità o modalità di trattamento (e la corretta individuazione delle basi giuridiche alternative al consenso);
  • l’approntamento di procedure ed automatismi per garantire all’interessato un agevole esercizio dei diritti di informazione e di intervento sui propri dati (con particolare attenzione, stante il contesto di specie, alle procedure per i diritti all’oblio e alla portabilità);
  • la predisposizione di procedure per la rilevazione e la gestione dei data breach (ivi compresi gli obblighi di informazione al Garante e agli interessati).

Tra i vari elementi di compliance qui sommariamente menzionati, unitamente agli obblighi di informazione chiara e trasparente, la parte del leone deve indubbiamente spettare alle misure di sicurezza. Monitorare gli smartphone (sebbene limitatamente all’utilizzo in auto) significa disporre di un “report” dinamico inerente la vita privata degli individui e la loro libertà personale. Fatta salva l’autorità giudiziaria nell’esercizio dei legittimi poteri, nessuno che non sia autorizzato dall’interessato deve poter metter mano su quel patrimonio informativo. Per questo, anche con riguardo agli investimenti aziendali, si dovrà conferire massima priorità alle procedure e dotazioni di cybersecurity di ultima generazione, ivi compresa l’esecuzione periodica di penetration test altamente specializzati.

Oltre a quanto disposto dal GDPR, i titolari o responsabili dovranno tener conto delle indicazioni dello European Data Protection Board (EDPB), dalle varie normative di privacy nazionali e dei diversi interventi di soft-law che possono impattare sulla specificità del contesto. Si dovrà, in aggiunta, prestare grande attenzione all’emanazione del Regolamento ePrivacy sulla vita privata e le comunicazioni elettroniche (qui il draft in discussione) che soppianterà – auspicabilmente entro il primo semestre 2019 – la Direttiva 2002/58/CE e che di certo inciderà su offerte assicurative i cui elementi distintivi sono l’interazione continua con lo smartphone utente e le trasmissioni telematiche.

E’ tutto interesse degli stakeholder insurtech proporre innovazioni digitali che siano pienamente rispettose della privacy dei clienti; questo, sia per evitare sanzioni pesantissime del GDPR sia per scongiurare irreparabili danni di immagine.

Assicurare la massima compliance non è soltanto una forma di tutela del patrimonio e degli interessi societari, ma anche un fattore che può rivelarsi strategico per la promozione e la valorizzazione della reputazione aziendale. Essere “campioni” della privacy, oggi significa poter denotare un sistema valoriale ben spendibile in termini di comunicazione etica. E questo è un elemento indefettibile se si vuole ingenerare la necessaria fiducia in una clientela cui – è bene ricordarlo – si sta chiedendo di acquistare un prodotto che comporta la rinuncia alla privatezza di una porzione rilevante della propria esistenza.

La prospettiva del contraente e il “privacy paradox”

Nonostante sia ormai chiaro a tutti che i dati personali sono il nuovo petrolio e la privacy – almeno ultimamente – sia un tema al centro della pubblica attenzione, i consumatori non appaiono ancora pienamente consci di cosa possa significare cedere continuamente e volontariamente informazioni riguardanti la propria vita e le proprie abitudini. O meglio: in molti di noi sussiste una certa consapevolezza, ma non sempre questa idea di fondo sembra incapace di influenzare la vita reale.

Quasi tutti teniamo, almeno in linea di principio, alla nostra privacy. Anzi, talora – nelle discussioni tra amici e colleghi, o nei commenti social – ce ne facciamo paladini, ci scandalizziamo per casi eclatanti come quello di Facebook/Cambridge Analytica, manifestiamo un atteggiamento censorio verso la mercificazione dei nostri dati da parte dei potenti della digital economy, sosteniamo con ardore che non cederemo mai a terzi la nostra personalità, e così via.

Ma, esaurito il momento dell’ostentazione dei principi morali e della dialettica a difesa dei libertà individuale, torna sempre il momento delle scelte pratiche, della quotidianità. E come d’incanto, il concetto di privacy, che fino a poco prima ci sembrava così chiaro e radicato nel nostro sentire, ci appare improvvisamente volatile, vago ed intangibile. Perdiamo così la visione di prospettiva, diventiamo più cedevoli e si aprono ampi varchi per chi desideri proporci un trade-off tra un qualche vantaggio immediato e l’autorizzazione a “scandagliare” i nostri comportamenti e le nostre inclinazioni.

Diversi studi dimostrano come gli individui:

  • si dichiarino sempre più preoccupati per la sorte della propria privacy;
  • risultino, numeri alla mano, sempre più propensi a consentire il monitoraggio e la profilazione dei propri data point in cambio di qualche tornaconto ben definito.

Nella maggioranza di noi alberga, dunque, un’intima contraddizione. Il bilanciamento degli interessi in campo, tendenzialmente favorevole alla tutela della privacy quando il nostro vaglio è puramente teoretico, da risultati di segno opposto quando elaboriamo processo decisionale concreto. C’è uno scollamento tra il ragionamento di principio e l’atto pratico. Tutto questo prende il nome di “privacy paradox”.

L’origine del paradosso risiede, per gran parte, nella nostra crescente incapacità di dare valore a ciò che è intangibile. I dati, in fondo, sono inafferrabili: vanno, vengono, sono ovunque. Ciascuno di noi rilascia centinaia di migliaia di tracce elettroniche ogni giorno. E se – allettati da un’offerta concreta ed attraente – ci troviamo a dover scegliere se cedere una ulteriore quota della nostra personalità digitale, il nostro subconscio ci rassicurerà sussurrando “Cosa vuoi che sia, sai quante volte lo abbiamo già fatto nella nostra vita? Tutti lo fanno, il nostro profilo sarà una goccia in più in un oceano di dati. Cosa mai se ne faranno? E cosa potrà succedere – proprio a me, poi – di così brutto?”.

E’ evidente che, in tali occasioni, stentiamo a vedere oltre l’immediato e fatichiamo a considerare gli effetti di medio/lungo termine delle nostre scelte. Ma se è vero che nel giro di qualche lustro ci siamo trasformati in esemplari di “homo digitalis”, sarà bene che impariamo a rappresentar meglio a noi stessi il contesto socio-economico in cui viviamo, riconoscendo opportunità e pericoli, concretizzando la consapevolezza in scelte razionali.

La necessità di un’adesione pienamente consapevole

Abbiamo già descritto come un prodotto assicurativo che sfrutti lo smartphone come strumento di monitoraggio del conducente possa produrre una win-win situation con nuovi e importanti benefici tutte le parti in gioco, assicurato compreso.

La cosa più importante è che il cliente, prima di aderire, sia pienamente consapevole di alcuni aspetti derivanti da un trattamento maggiormente estensivo dei suoi dati personali. Di seguito elenchiamo quelli che, ad avviso di chi scrive, sono i principali punti meritevoli di attenzione.

Il contraente deve essere conscio che gli è chiesto di acconsentire alla sorveglianza sistematica dei suoi movimenti e dei comportamenti in auto. Questo significa rinunciare ad una quota non indifferente della propria sfera privata. C’è chi sarà un po’ preoccupato da questa prospettiva e chi sarà del tutto indifferente. Ma una volta fatto il passo, sarà psicologicamente difficile tornare indietro.

Il contraente deve informarsi e leggere con attenzione tutta la documentazione contrattuale (informativa privacy dell’app compresa) per capire se l’assicurazione intenda chiedere accesso ad altre app dello smartphone dell’utente apparentemente estranee alla gestione della polizza auto. Poniamo un esempio tra i tanti che si potrebbero portare. Molte persone soffrono di apnee notturne (in Italia 1 su 4). Per le forme medio-severe di OSAS (Obstructive Sleep Apnea Syndrome) potrebbe necessario ricorrere ad una terapia tramite un dispositivo ad uso domiciliare di ventilazione meccanica a pressione positiva continua (CPAP – Continuous Positive Airway Pressure). Le terapie più moderne connettono il dispositivo ad apposite piattaforme online permettendo al medico del sonno di analizzare il flusso di dati registrati dalla macchina per verificare l’efficacia del trattamento e disporre correttivi del caso. Non mancano, ovviamente, le app (clicca qui per quella proposta dal colosso del settore Resmed) per gli utenti che vogliano sorvegliare l’andamento della terapia. Cosa c’entra tutto questo con l’assicurazione di un veicolo? Molto semplice: poiché affetti da un’eccessiva sonnolenza diurna, gli automobilisti che soffrono di OSAS corrono (leggi qui dall’Associazione Pneumologi Italiani Ospedalieri) un rischio fino a 7 volte maggiore di provocare un incidente stradale. Ed allora non è impossibile immaginare uno scenario in cui l’app insurtech che riconoscesse sul telefono la presenza di un app per il monitoraggio delle apnee notturne chieda all’utente autorizzazione ad accedere ai report di quest’ultima per ottenere importanti informazioni sullo stato di forma dell’assicurato (NdR: a proposito di strumenti CPAP e condivisione di dati con le compagnie assicurative si consiglia la lettura di questo articolo su ProPublica). Restando con gli esempi “tra le braccia di Morfeo”, ma uscendo dall’ambito sanitario, sono sempre più i possessori di smartwatch o braccialetti smart (tipo Fitbit) che scaricano app per il monitoraggio “amatoriale” del sonno: i sensori del dispositivo rilevano attività cardiaca e movimenti effettuati a riposo mentre la relativa app fornisce reportistica affinché il dormiente problematico possa variare le proprie abitudini notturne. Premesso che la comunità scientifica (leggi qui dal Journal of Clinical Sleep Medicine) ritiene addirittura dannose – perché ansiogene – queste app, le informazioni sul ciclo del sonno potrebbero interessare all’app assicurativa per gli ovvi e già citati motivi. Va chiarito che gli esempi testé menzionati sono puramente teorici; ma se ci sono compagnie – come l’americana John Hanckock – che offrono polizze vita scontate fino al 15% e un Fitbit in omaggio a quei clienti che permetteranno all’assicurazione di monitorare il proprio stato di forma (tramite accesso continuo alle rilevazioni del braccialetto), lo scenario non è imponderabile.

Il contraente deve informarsi e leggere con attenzione tutta la documentazione contrattuale (informativa privacy compresa) per capire se e fino a che punto l’assicurazione intenda utilizzare tali dati per finalità che esulano dalla gestione della polizza auto. Quei dati sono molto preziosi per la compagnia e potrebbero essere utilizzati per meglio definire – con processi decisionali automatizzati –  il profilo di rischio del cliente in altri ambiti (ad esempio, assicurazione sanitaria o vita). Nel caso la compagnia richieda un simile permesso (magari in cambio di sconti sul rinnovo di altre polizze già attive), il contraente dovrà aver ben chiaro che l’assicurazione potrà a quel punto incrociare una massa di dati eterogenei, approntare un’attività di profilazione sempre più vasta e accurata facendo algoritmicamente interagire data point che un tempo non si parlavano tra loro. Per fare un esempio elementare, se il monitoraggio del telefono svela una guida indecisa o distratta nel contesto della polizza auto, l’assicurazione potrebbe attivare ricadute sulla polizza vita.

Il contraente deve informarsi e leggere con attenzione tutta la documentazione contrattuale (informativa privacy compresa) per capire se e fino a che punto l’assicurazione intenda chiedere il consenso per poter comunicare i dati a propri partner commerciali estranei dalla filiera della polizza auto. Se accettiamo l’idea che i dati in questione sono critici, allora dobbiamo saper distinguere tra il partner necessario all’esecuzione servizio e quello che invece è solo beneficiario di un accordo per lo sfruttamento commerciale del nostro profilo. Ed è importante che – anche a fronte di possibili sconti e vantaggi prospettati dalla terza parte – sia ben ponderata l’eventuale scelta di permettere una extra circolazione dei dati sull’utilizzo del telefono e sul comportamento alla guida. Ampliare il perimetro significa rischiare di ampliare il grado di separazione, e magari perdere il controllo fino a rendere faticosa la ricostruzione di eventuali responsabilità nel caso un domani succedesse un qualcosa a causa di un utilizzo improprio di quei (nostri) dati.

Infine, un contraente consapevole e al passo coi tempi che viviamo deve mettere in conto il peggio: ossia che i suoi dati siano rubati. Per quante rassicurazioni possano esser date, è oggigiorno ineliminabile il rischio che un data breach colpisca il sistema (cloud-based o meno) che custodisce le informazioni affidate all’assicurazione. Può sempre accadere che – come successo all’inglese Bupa – un singolo dipendente sottragga un database contente i dati di mezzo milioni di clienti di un’assicurazione sanitaria, ma la minaccia di un attacco da remoto è il timore che più preoccupa.

I cyber-attacchi nel settore assicurativo sono in crescita esponenziale (leggi qui un case study di Deloitte). La cosa non stupisce: le compagnie stanno migrando molti processi sul web e stanno ampliando la loro offerta tramite piattaforme digitali, app e altre soluzioni tecnologiche. Questo scenario di transizione digitale (non ancora completato) apre a nuove opportunità e a strategie commerciali innovative ma il prezzo da pagare è una maggiore esposizione agli hacker che vedono ora nel comparto assicurativo aggirarsi prede succulente a portata di attacco (prede pasciute di innumerevoli dati identificativi, recapiti, carte di credito, dati sanitari, geografici, big data analytics, dati derivanti dalle app scaricate dai clienti, e quant’altro).

Può capitare che alcune di queste prede non si siano ancora adattate al nuovo ecosistema e non abbiano ancora sviluppato difese adeguate al contesto ambientale in cui sono da poco migrate. Questo perché non sempre agli investimenti di digital transformation corrispondono adeguati investimenti di cyber-security. I casi di attacchi andati a segno negli ultimi anni sono diversi. Talora possono colpire “solo” un milione di assicurati (vedasi qui CareFirst nel 2015), talora possono essere devastanti. L’anno scorso, Anthem Inc., la più grande società americana operante nel ramo dell’assicurazione sanitaria, ha pagato una sanzione da 115 milioni di dollari per non aver saputo difendere i dati di 78 milioni di clienti finiti nelle mani di un hacker.

Il futuro della polizza auto

In questo elaborato si è sottolineato come lo smartphone as a sensor possa essere il prossimo step evolutivo dell’assicurazione auto. Ma alle viste lo scenario potrebbe essere ulteriormente e ripetutamente rivoluzionato da nuovi “strappi” tecnologici che si stagliano all’orizzonte.

In Inghilterra negli ultimi tempi è scoppiata la mania delle dash-cam. Spinti dagli sconti sulla polizza offerti dalle assicurazioni, ben 11 milioni di proprietari d’auto hanno montato in macchina una piccola videocamera (comprata in autonomia o in offerta da partner della compagnia) che riprende la marcia del veicolo in modo continuato sovrascrivendo di continuo la memoria. In caso di incidente, il proprietario salva il file e lo invia alla compagnia. L’assicurazione non ha accesso continuo al device, ma è probabile che un domani gran parte delle auto saran dotate di telecamera integrate non solo per assistere la fase di parcheggio ma anche per registrare la marcia e gli accadimenti circostanti. E a quel punto l’interesse delle compagnie all’interconnessione continua con i propri sistemi potrebbe concretizzare qualche forma di offerta alla clientela.

L’evoluzione dell’assicurazione auto dipenderà, comunque e in gran parte, dal prossimo livello di automazione e connettività delle automobili stesse. Il settore automotive sta sviluppando vetture sempre più connesse, intelligenti e con crescenti funzionalità di guida assistita che possono evitare collisioni e distrazioni. Tutti fattori che possono incidere sul valore del premio assicurativo.

La biometria, per ora rimasta ai margini di questo business, potrebbe giocare un ruolo a sua volta importante. L’industria automobilistica sta esplorando con attenzione tutte le opportunità favorite dal proliferare delle tecnologie biometriche. Queste possono indubbiamente – come in altri settori – essere utilizzate come feature di sicurezza per l’accesso: l’apertura delle porte e l’accensione del motore potrebbero, ad esempio, essere soggette a riconoscimento digitale, facciale, vocale o a scan dell’iride. Ma c’è di più. Uno studio di Frost & Sullivan predice che entro il 2025 le auto potrebbero essere dotate di un ecosistema biometrico composto di svariati sensori (alcuni integrati nel veicolo, altri indossati dal guidatore) che – connessi in cloud – potranno registrare ed interpretare gesti, smorfie, movimenti oculari, battito cardiaco, pressione sanguigna, e fors’anche onde celebrali del guidatore così da rilevarne anticipatamente sintomi di stress, sonno, ansia, fatica, malore. In tal modo l’auto potrebbe intervenire sulla guida e interagire con il guidatore in stato non ottimale. E l’assicurazione eventualmente connessa potrebbe trarre le informazioni necessarie per riformulare il proprio “patto” con il contraente.

Questo è un possibile scenario evolutivo. Ma tutti sappiamo che all’orizzonte si staglia già qualcosa di ulteriore e di profondamente rivoluzionario.

Le auto che si guidano da sole, sebbene in ancora in fase di test, sono già una realtà. Le assicurazioni si stanno da tempo arrovellando su come approcciare il tema dei veicoli a guida automatizzata e le self-driving car. Gli incidenti che, ancora quest’anno, sono costati la vita ad un test driver (leggi qui) e ad una ciclista (leggi qui), non stanno facilitando il lavoro. Ci vorrà del tempo per sciogliere tutti i nodi di un cambiamento epocale che – se avrà successo – è destinato a sradicare completamente la logica antropocentrica su cui la polizza auto è stata imperniata per decenni. Con tutta probabilità dovranno essere i produttori stessi a farsi carico della responsabilità da incidente non causato da comportamento umano. E siccome oltre il 90% degli incidenti è causato da errore umano, è probabile che – togliendo completamente il guidatore dall’equazione – la RCA dell’acquirente auto non avrà più ragione d’essere. E se – come nelle speranze dei produttori – le autovetture driverless ridurranno a zero gli incidenti stradali, allora anche l’assicurazione della responsabilità civile per danni da circolazione potrebbe diventare un pallido ricordo (o se ancora obbligatoria, un costo irrilevante). Al proprietario non resterà che stipulare – probabilmente con il produttore stesso – polizze (come questa proposta da Tesla) che coprano la sostituzione delle parti, la manutenzione, l’auto sostitutiva in caso di guasto, etc. Ma per arrivare a questo punto saranno necessari ancora diversi test in un ambiente reale, la piena chiarificazione di quanto il fattore umano possa influenzare l’intelligenza artificiale alla guida del mezzo, e – più in genere – il realizzarsi di una serie di precedenti che potrebbero indirizzare lo sviluppo nel senso tracciato oppure cambiare le carte in tavola.

Ogni passo andrà verificato con cautela, perché il viaggio verso il futuro di assicuratori e assicurati non può essere né impostato col navigatore né affidato al pilota automatico.