Oltre 20 associazioni per la difesa dei diritti dell’infanzia, dei consumatori e della privacy hanno chiesto alla Federal Trade Commission (FTC) di indagare sui servizi e le pratiche commerciali di YouTube con riguardo all’utilizzo dei dati personali dei minori.

L’atto d’accusa – qui integralmente consultabile – contesta a YouTube la violazione del Children’s Online Privacy Protection Act (COPPA) in ragione del fatto che la piattaforma di video-sharing non informa con trasparenza e non richiede consenso preventivo ai genitori dei minori di 13 anni di età per:

  • il trattamento dei loro dati identificativi (nome, localizzazione, dispositivo utilizzato, numero di telefono) e delle loro scelte online;
  • l’invio di pubblicità personalizzate basate sull’analisi delle summenzionate informazioni individuali.

Oggetto della lagnanza, a dire il vero, è l’ecosistema Google a cui YouTube appartiene e che guadagnerebbe introiti pubblicitari tramite la profilazione degli infanti. Josh Golin dell’associazione Campaign for a Commercial-Free Childhood critica: “Per anni, Google ha declinato responsabilità nei confronti di bambini e famiglie, sostenendo in malafede che YouTube – un sito colmo di cartoni animati, filastrocche e pubblicità di giocattoli – non è adatto per bambini sotto i 13 anni.” Jeff Chester del Center for Digital Democracy è dello stesso avviso: “Google ha agito in modo scorretto, affermando falsamente nei suoi termini di servizio che YouTube è destinato solo ai maggiori di 13 anni e calamitando deliberatamente i bambini in un parco giochi fatto di pubblicità.”

I termini di servizio di YouTube sostengono che per effettuare il login alla piattaforma bisogna creare un Google account: e per creare l’account bisogna avere almeno 13 anni. Orbene, dando per assunto che nessun genitore creerebbe un account per conto del proprio pargolo laddove è la piattaforma stessa ad ammettere che il servizio proposto è dedicato agli over 13, il problema è che:

  • per accedere ai video (e, di conseguenza, ricevere pubblicità mirata semplicemente in base a ciò che si è consultato) non è necessario avere un account;
  • comunque sia, un bimbo può accedere con l’account parentale (spesso perché il dispositivo del genitore è già loggato) oppure può crearne uno proprio fingendosi un utente di 13 o più anni senza che il sistema del gigante di Mountatin View ponga in essere forme di controllo preventivo sull’età dell’utente.

E così finisce che i più piccoli sono utenza attiva di YouTube e, quindi, del suo business. Vale la pena, fornire qualche dato in proposito. Una ricerca del 2017 di Trendera sull’evoluzione del digital marketing ha stimato che il 45% dei bambini americani di età compresa tra gli 8 e i 12 anni dispone di un account per accedere a YouTube. Alcuni channel tematici di YouTube hanno un successo incredibile. Il canale di video canzoncine animate LittleBabyBoom ha – nel momento in cui scriviamo – 14 milioni di account iscritti e oltre 16 miliardi di visualizzazioni.

C’è poi l’incredibile fenomeno delle migliaia video di successo che ritraggono bimbi che scartano regali per decine di minuti consecutivi: video che – chiunque vi abbia fatto incappare un proprio figlio tra i 2 e 5 anni, lo sa – appaiono del tutto insensati agli adulit, ma che hanno un potere magnetico impressionante sui più piccoli (provate a levare loro un tablet mentre sono ipnotizzati davanti ad un coetaneo russo che scarta l’ennesimo uovo con sorpresa… conoscerete l’odio figliale in purezza). Il canale Ryans ToysReview è il più noto tra questi: il piccolo Ryan ora ha 6 anni e da quando ne ha 3 apre regali su YouTube per un totale di – mentre scriviamo – 992 video, 13 milioni di iscritti e guadagna 11 milioni di dollari l’anno da introiti pubblicitari.

L’effetto di questi filmati sugli utenti più piccoli è noto a tutti: gli infanti entrano in un vortice di video, con il loro ditino cliccano sulla barra laterale per vederne altri suggeriti dall’algoritmo e che spesso iniziano con pubblicità di prodotti per bimbi (sempre che il video in sé non contenga pubblicità più o meno occulte). Basta che accedano al primo file ed entrano in una sorta di stato di addiction per video concatenati il cui flusso in streaming potrebbe durare all’infinito (grazie anche all’autoplay che in caso di inerzia dell’utente carica il file successivo prescelto dall’algoritmo): in alcuni casi, solo l’esaurimento della batteria del dispositivo porrà fine all’alternanza canzoncine-pubblicità-scartamento regali-pubblicità. Alla fine il bambino sarà quasi catatonico, ma il suo cervello bombardato di imput starà già iniziando ad elaborare la prossima letterina (tele-dettata dagli impulsi pubblicitari) per Babbo Natale.

Google non fornisce agli advertiser strumenti diretti per targettizzare i messaggi promozionali sugli utenti minori di 18 anni: le aziende e le agenzie pubblicitarie, nell’utilizzare le console dei servizi marketing venduti da Google (AdWords, etc.), non possono selezionare i minorenni come cluster su cui agire con proposte mirate. Ma non sfugge che ci sono molti altri modi (a partire da un eventuale query di ricerca digitata dal minore o dal genitore) per capire che lo spettatore è un bimbo e, quindi, veicolare proposte ad hoc.

Google si riserva di esaminare la segnalazione giunta alla FTC, ma attraverso un portavoce ha già fatto sapere che “proteggere bambini e famiglie è sempre stata la nostra massima priorità. Dal momento che YouTube non è per bambini, abbiamo investito molto nella creazione della app YouTube Kids per offrire un’alternativa specificamente progettata per i bambini “. Un’alternativa che non sembra sufficiente (i piccoli continuano ad usare la versione per adulti) e che comunque è già stata oggetto di critiche per le impostazioni di privacy ritenute inadeguate.

In un mondo interattivo ed interconnesso, i minori rilasciano dati come i grandi e su questi dati è possibile generare business guidando i loro gusti e le loro scelte (e quindi – giusto o sbagliato che sia – condizionando la loro formazione e il loro libero sviluppo). I nostri figli sono profilati da YouTube e giocano con smart toys che inquadrano e monitorano la loro individualità e i loro comportamenti per finalità di marketing.

L’art.8 del GDPR, la nuova normativa di data protection europea in forza dal 25 maggio 2018, prevede che:

  • Per quanto riguarda l’offerta diretta di servizi della società dell’informazione ai minori, il trattamento di dati personali del minore è lecito ove il minore abbia almeno 16 anni. Ove il minore abbia un’età inferiore ai 16 anni, tale trattamento è lecito soltanto se e nella misura in cui tale consenso è prestato o autorizzato dal titolare della responsabilità genitoriale.
  • Gli Stati membri possono stabilire per legge un’età inferiore a tali fini purché non inferiore ai 13 anni.
  • Il titolare del trattamento si adopera in ogni modo ragionevole per verificare in tali casi che il consenso sia prestato o autorizzato dal titolare della responsabilità genitoriale sul minore, in considerazione delle tecnologie disponibili.

Vedremo se l’Italia determinerà con proprio decreto che tali vincoli debbano operare con riguardo agli utenti di un’età inferiore ai 16 anni (dalle bozze di nuovo decreto privacy in circolazione, pare che ci si voglia orientiare sulla soglia dei 14 anni). Comunque sia, Google – così come Facebook, gli altri tech-giants, i produttori di smart toys, e chiunque altro voglia trattare i dati di minorenni “sotto soglia” – dovrà prestare attenzione alle proprie privacy policy relative ai dati dei più piccoli perché, oltre che nei possibili strali della Federal Trade Commission (le associazioni auspicano multe milionarie), potranno incorrere nelle sanzioni del GDPR che arrivano a 20 milioni di euro o 4% del fatturato globale anni di gruppo qualora il minore sia cittadino UE.

Oltre al consenso genitoriale e ai sistemi di age-verification, il punto nodale su cui dovranno lavorare è quello della trasparenza. Il ricorso contro YouTube e la bufera scatenata dal caso Facebook/Cambridge Analytica suggeriscono che non è più tempo per informare in modo parziale o ambiguo gli utenti su come vengono trattati i loro dati e su come certi automatismi profilanti possono condizionare le loro scelte.