Improvvisamente pare che in molti siano interessati ad avere il template del nostro volto. I sistemi di riconoscimento facciale, che fino a poco tempo fa sembravano dotazioni esclusive di contesti high-tech o aree a massima protezione, ora sono proposti come soluzione ottimale per molteplici impieghi su larga scala.

In articolo recente riguardante lancio del nuovo iPhone X dotato di autenticazione via Face ID, Marco Massimini di Privacy.it aveva ipotizzato che il “melafonino del decennale” potesse costituire il prodromo di un processo di “normalizzazione” (presso il grande pubblico) dei sistemi di riconoscimento facciale. Il sillogismo è semplice: se gli utenti dello smartphone trend-setter per eccellenza si ritroveranno a proporre il proprio viso – decine di volte al giorno – per accedere al dispositivo, il ricorso a questo sistema in altri contesti della nostra quotidianità sarà presto percepito come ragionevole e abituale. Un processo di assuefazione che appare forse prematuro perché l’ipotesi di un utilizzo su larga scala di questa tecnologia non lascia propriamente tranquilli, considerato – inter alia – che:

  • in termini di affidabilità e sicurezza, la tecnologia stessa non si è ancora rivelata immune da errori e vulnerabilità (tutt’altro);
  • in un momento storico in cui una masnada di cyber-criminali sbeffeggia quasi ogni giorno anche degli ambienti super secured, ci sono ancora un’infinità di operatori poco preparati: il timore è che, se la tecnologia costa poco e il pubblico si dimostra disponibile o già assuefatto, in molti si metteranno a proporre servizi integrando funzioni di facial recognition ai propri “sistemi gruviera”;
  • c’è sempre qualche remora circa la costituzione di database biometrici massivi che potrebbero suscitare gli appetiti di qualche agenzia governativa in vena di sorveglianza straordinaria. Nell’era di Snowden, del Datagate e, da ultimo, del Russiagate la prospettiva che i template dei volti di intere popolazioni possano finire nelle mani sbagliate o essere utilizzati in modi anti-democratici è piuttosto inquietante.

Negli ultimi giorni, due notizie sono apparse quasi a corroborare l’impressione che la facial recognition stia repentinamente accelerando il proprio processo di improvvisa permeazione nel nostro vivere quotidiano:

Lette a stretto giro, queste due news ci inducono (per deformazione professionale?) altrettante proiezioni, quasi istintive:

  • e se Facebook decidesse, un giorno neanche tanto lontano, che l’accesso via riconoscimento facciale divenisse log-in primario alla piattaforma? Oltre 2 milardi di utenti si abituerebbero, in men che non si dica, ad allungare il collo verso la propria webcam per farsi riconoscere dai sistemi di Menlo Park;
  • e se la proposta del governo australiano andasse in porto e, dopo qualche tempo, fosse imitata da altre nazioni? Ci sarebbero diverse popolazioni monitorate ed identificate da migliaia di telecamere in ogni momento della loro vita in pubblico.

Concludendo, per azzardare il pronostico possiamo anche evitare di considerare gli altri centinaia di sistemi di face identification già in essere o in via di implementazione per applicazioni commerciali (ad es., pagare un bene o servizio) oppure per finalità organizzative (ad es., accedere ad un building). Quando lo smarphone-icona per antonomasia del nuovo millennio, il social network più diffuso del pianeta, e i sistemi di pubblica sicurezza di una nazione democratica ci dicono che il riconoscimento facciale è LA soluzione, forse il processo di assuefazione è già incominciato.

P.S. Se così fosse, formulare qualche proiezione distopica vien quasi istintivo:

  • Se la nostra faccia diventa una sorta di  ID digitale con cui accediamo ad una moltitudine di servizi, cosa succede se il template finisce nelle mani degli hacker? Si impossesserebbero della nostra vita digitale, risparmi compresi? Peraltro, una password si può rigenerare, un volto no (salvo pesanti interventi di chirurgia estetica).
  • Cybercrime a parte, sarebbe inverosimile immaginare che un giorno i database privati e quelli pubblici trovassero, per qualche motivo, un punto di interconnessione? E sarebbe così impensabile ipotizzare un futuro in cui, ad esempio, avvicinando il volto alla video-sensore dell’immigration aeroportuale appaia a terminale la parola “indesiderato” e ti sia negato l’ingresso perché 7-10 anni prima avevi criticato su un social (tramite profilo abbinato alla tua face ID) l’operato del governo del paese che intendi visitare?