L’ACCESSO AGLI ATTI DELL’ISPEZIONE IN MATERIA DI LAVORO
TRA DIRITTO DI DIFESA DEL DATORE ED INTERESSI DEL LAVORATORE

a cura di Giuliano Esposito
(Ispettore del lavoro presso la Direzione provinciale del lavoro di Arezzo)

 

SOMMARIO: Introduzione — 1) L’evoluzione normativa in tema di trasparenza e riservatezza — 2) La pertinenza del richiamo alla riservatezza in opposizione al diritto di accesso agli atti del procedimento ispettivo — 3) La difesa della posizione del lavoratore e la cura e tutela degli interessi giuridici del datore di lavoro — 4) Conclusioni.

Con tre pronunce emesse nel corso del 2006 (1), il Tribunale Amministrativo Regionale del Veneto ha avuto occasione di decidere in ordine al contrasto sorto tra il datore di lavoro che richieda di prendere conoscenza delle dichiarazioni rilasciate dai propri dipendenti nel corso di un procedimento ispettivo e l’interesse rinvenibile in capo a questi ultimi a che il contenuto delle medesime resti riservato. In ragione delle differenti quaestiones facti venute alla propria attenzione, il giudice di prime cure si è alternativamente pronunciato a favore del datore di lavoro o dell’amministrazione che ha negato la conoscibilità delle dichiarazioni (2).

Più che il diversificato esito dei giudizi, tuttavia, appare di particolare interesse il fatto che il T.A.R. Veneto, nella risoluzione delle controversie giunte al proprio vaglio, si sia posto prevalentemente — non esclusivamente, come si vedrà — nel solco di quell’orientamento giurisprudenziale che rinviene nelle contrapposte posizioni un conflitto tra il diritto di accesso ai documenti amministrativi fatto valere dall’istante (datore di lavoro) ed il diritto alla riservatezza che si manifesta in capo ai terzi (lavoratori).

Se tale orientamento ha goduto di pieno seguito per circa un decennio, la sopravvenienza di una serie di pronunce basata su un diversa elaborazione del tema ha di recente condotto ad un differente inquadramento della questione. Le predette pronunce del T.A.R. Veneto forniscono allora l’occasione di soffermarsi su quelle problematiche che, non trovando una soluzione sufficientemente consolidata nelle decisioni del giudice amministrativo, offrono la possibilità di una rilettura.

1) - L’EVOLUZIONE NORMATIVA IN TEMA DI TRASPARENZA E RISERVATEZZA

Se il prevalente inquadramento operato dalla giurisprudenza in tema di conoscibilità degli atti formatisi nell’ambito del procedimento ispettivo attiene ai confliggenti diritti all’accesso ai documenti amministrativi ed alla riservatezza — e dunque, da un punto di vista applicativo, alla delicata operazione di "bilanciamento" che logicamente ne scaturisce —, risulta opportuna una sintetica analisi delle diverse fonti concernenti l’evoluzione legislativa e regolamentare relativa a tali diritti (3).

Ad introdurre nel nostro ordinamento l’istituto dell’accesso agli atti amministrativi è, come noto, la legge 7/8/1990 n.241 (4).

Data la definizione di "diritto di accesso" (art.22) ed individuato il suo ambito soggettivo di applicazione (art.23), il legislatore ha posto particolare attenzione ai presupposti applicativi di tipo oggettivo. Sin dal testo originario, infatti, l’art.24 della legge elenca in primo luogo una serie di ipotesi in cui il diritto in discorso risulta normativamente escluso, stante la presenza di interessi da considerarsi ad esso sovraordinati (si pensi, ad esempio, ai vari casi di "segreto" o di divieto di divulgazione previsti dall’ordinamento) (5). Secondariamente, poi, il legislatore lascia all’autorità governativa la possibilità di prevedere, mediante regolamento di delegificazione, ulteriori ipotesi di "sottrazione" all’accesso, all’interno di una serie di esigenze previamente individuate: tra queste, l’esclusione del diritto di accesso "quando i documenti riguardino la vita privata o la riservatezza di persone fisiche, persone giuridiche, gruppi, imprese e associazioni con particolare riferimento agli interessi epistolare, sanitario, professionale, finanziario, industriale e commerciale di cui siano in concreto titolari, ancorché i relativi dati siano forniti all’amministrazione dagli stessi soggetti cui si riferiscono" (6).

Sul punto, l’art.8 del regolamento successivamente introdotto, d.P.R. 27 giugno 1992 n.352 (7), nel limitarsi a precisare ulteriormente i criteri che presiedono alle ipotesi di esclusione del diritto di accesso, non ha fatto altro che riprodurre le esigenze che vi sono sottese, così come indicate al richiamato art.24 della l.241/90; l’Autorità governativa ha cioè ritenuto di non indicare analiticamente le categorie documentali o i singoli documenti da sottrarre all’accesso, quanto piuttosto di demandare tale incarico a ciascuna p.a. in ragione della rispettiva sfera di competenza.

La scelta è chiara (per certi versi, scontata): sono le diverse amministrazioni ed enti pubblici, in ragione dell’interesse pubblico che è loro compito perseguire, i soggetti che meglio possono individuare i documenti, o categorie di documenti (8), per i quali l’accesso risulta escluso (in quanto diritto costretto a recedere di fronte ad altri maggiormente meritevoli di protezione).

Nella materia lavoristica, allora, il compito di dare attuazione a quanto previsto dalla fonte regolamentare, è ricaduto sul Ministero del lavoro e sugli enti previdenziali, ciascuno in ragione delle proprie competenze. Essi vi hanno assolto rispettivamente con l’emanazione del decreto ministeriale 4 novembre 1994 n.757 (9), del provvedimento I.N.P.S. n.1951 del 16 febbraio 1994 e dei regolamenti I.N.A.I.L. del 1992, del 1994 e, da ultimo, del 13 gennaio 2000 n.5 (adottato al fine di adeguare la disciplina dell’accesso alla normativa nel frattempo sopravvenuta in tema di riservatezza, di cui si dirà a breve).

Ai fini della presente indagine, va subito osservato come ciascuno dei menzionati provvedimenti abbia preso in considerazione, al fine di decretarne la sottrazione al diritto d’accesso, la seguente documentazione riguardante l’attività ispettiva in materia di lavoro:

  • ex art.2 del d.m. 757/94, "i documenti contenenti notizie acquisite nel corso delle attività ispettive, quando dalla loro divulgazione possano derivare azioni discriminatorie o indebite pressioni o pregiudizi a carico di lavoratori o di terzi" (art.2, comma primo, lett.c) nonché "i documenti contenenti le richieste di intervento dell’Ispettorato del lavoro" (art.2, comma primo, lett.b), e ciò "in relazione all’esigenza di salvaguardare la vita privata e la riservatezza di persone fisiche, di persone giuridiche, di gruppi, imprese e associazioni";
  • ai sensi del n.12 dell’allegato A (punto II) al provv.1951/94 I.N.P.S., richiamato dall’art.17 dello stesso provvedimento (intitolato "della tutela della riservatezza"), "le dichiarazioni rilasciate da lavoratori che costituiscano base per la redazione del verbale ispettivo, al fine di prevenire pressioni, discriminazioni o ritorsioni ai danni dei lavoratori stessi";
  • ex art.14 della delibera 5/00 I.N.A.I.L., gli "accertamenti ispettivi", al fine di tutelare "la vita privata o la riservatezza di persone fisiche, di persone giuridiche, di gruppi, di imprese e associazioni, con particolare riferimento agli interessi epistolari, sanitari, politici, sindacali, religiosi, professionali, finanziari, industriali e commerciali di cui essi siano in concreto titolari, ancorché i relativi dati siano stati forniti all'Amministrazione dagli stessi soggetti cui si riferiscono".

Se è vero che i provvedimenti amministrativi sopra menzionati denotano una certa difformità di scelte nell’individuazione (e finanche nelle modalità descrittive) dei "tipi documentali" da sottrarre all’accesso, va comunque posto l’accento sulla generale riconduzione dei divieti sopra indicati ad esigenze di tutela della vita privata e della riservatezza (in piena aderenza alla previsione dell’art.24 l.241/90 e con espressioni che, nel caso della delibera dell’I.N.A.I.L., riproducono pedissequamente il comma quarto, lett.d), della stessa norma).

Ciò anche a sottolineare come, a fronte di una normazione del diritto d’accesso che nella prima metà degli anni ‘90 può dirsi compiuta (sebbene ancora "sotto osservazione" in merito alle sue prime applicazioni), venga comunque presentito il crescente rilievo del bene "riservatezza" che, al contrario, "trova ancora fondamento e tutela esclusivamente nell’art.2 della Costituzione in tema di diritti della personalità" (10) (11).

E’ solo con la legge 31/12/1996 n.675, infatti, che il diritto alla riservatezza è espressamente introdotto nell’ordinamento, quale diritto inviolabile personale alla tutela dell’intimità della sfera privata.

All’indomani dell’entrata in vigore di una legge che in ogni caso non contempla una specifica definizione di "riservatezza" (12) — ma si caratterizza per la predisposizione di una tutela "forte" della stessa nei confronti delle cd. "banche dati", attraverso la protezione dei dati personali inerenti l’individuo e la persona giuridica —, si avverte chiaramente come l’impianto legislativo punti l’attenzione in maniera preponderante sul rapporto tra riservatezza e trasparenza (valori, si può dire, entrambi prepotentemente "emergenti"): in particolare, quanto alle concrete modalità di tutela della riservatezza, l’art.27, comma terzo, stabilisce che "la comunicazione e la diffusione di dati personali da parte dei soggetti pubblici a privati o ad enti pubblici economici sono ammesse solo se previste da norme di legge o di regolamento"; mentre l’art.43, comma secondo, entra nel merito del menzionato rapporto, disponendo che "Restano ferme (…) le vigenti norme in materia di accesso ai documenti amministrativi ed agli archivi di Stato", così confermando che l’operatività del diritto d’accesso, anche quando vengano in rilievo esigenze riconducibili alla sfera privata della persona, va osservata sempre in riferimento alle regole sul procedimento amministrativo (13).

Negli anni successivi all’entrata in vigore della legge 675/96, sé è vero che la riflessione sul diritto di accesso agli atti amministrativi conosce un consistente sviluppo (soprattutto in ordine alle modalità di esercizio ed al rapporto con gli interessi sui quali va ad incidere), è da dire che ciò accade quasi esclusivamente in virtù di elaborazione giurisprudenziale (14). Nel contempo, invece, il dibattito sulle forme di intrusione nella vita privata della persona si amplia notevolmente, in relazione ad una accresciuta capacità — delle pubbliche amministrazioni (15), così come di tutti i soggetti pubblici e privati che si trovano a trattare dati personali — di elaborazione qualitativa e quantitativa di informazioni, direttamente derivante dalla disponibilità di una strumentazione informatica e telematica sempre più complessa e sofisticata.

L’esigenza di fornirsi di mezzi adatti a fronteggiare tali pericolose ingerenze, nonché quella di reductio ad unum della disciplina sulla privacy — "sparsa" ormai in diversi provvedimenti, anche di stampo settoriale — porta infine all’emanazione del d.lgs. 30 giugno 2003 n.196 ("Codice in materia di protezione dei dati personali") (16).

Tale complesso normativo costituisce il logico completamento di quanto già elaborato con la precedente legge 675/96, evidenziando una concezione giuridica del bene "riservatezza" ormai matura, potenzialmente atta a dispiegare una larghissima protezione per l’individuo (17): "grazie al decreto legislativo n.196 del 2003 e, quindi, con la codificazione del diritto all’autodeterminazione informativa, ciascuno di noi può proteggere i propri dati personali, avendo ciascuno il diritto di proporsi agli altri negli esatti termini in cui vuole che ciò accada, decidendo in anticipo quali informazioni personali è disposto a dare agli altri soggetti" (18). In definitiva, "la tutela della riservatezza realizzata in tal modo diventa (…) uno strumento che, da una parte, garantisce all’individuo la libera costruzione della propria sfera privata e, dall’altra, consente allo stesso di esercitare un controllo sociale diffuso e continuo sugli organismi pubblici e privati che detengono le informazioni, per assicurare la trasparenza della loro attività ed impedire la creazione di poteri incontrollati" (19).

Nella sostanza, le norme specificamente dettate dal d.lgs.196/03 sul rapporto tra tutela dei dati personali e diritto d’accesso, gli artt.59 (20) e 60 (21), non si discostano da quanto già affermato agli artt.43 della l.675/96 e 16 del d.lgs. n.135 del 1999 (quest’ultimo riguardante l’individuazione dei dati cosiddetti "supersensibili"). Piuttosto, il risultato conseguito dal decreto consiste nel definitivo consolidamento di un processo evolutivo sinora parallelo: la maturazione per tappe normative del concetto di riservatezza da una parte, la "progressione" giurisprudenziale in tema di accesso alla documentazione amministrativa dall’altra, trovano finalmente un primo tentativo di sintesi delle opposte esigenze in un quadro unitario.

In questo senso, il codice della privacy costituisce il preludio agli ultimi sviluppi normativi sul tema in discorso: con la legge 11 febbraio 2005 n.15, che interviene sull’originario impianto dell’art.24 l.241/90, il legislatore lascia inalterate le previsioni sostanziali in materia di esclusione del diritto d’accesso ma risolve espressamente talune importanti ipotesi di conflitto dello stesso con il bene "riservatezza", affermando che "deve comunque essere garantito ai richiedenti l'accesso ai documenti amministrativi la cui conoscenza sia necessaria per curare o per difendere i propri interessi giuridici" e che "nel caso di documenti contenenti dati sensibili e giudiziari, l'accesso è consentito nei limiti in cui sia strettamente indispensabile e nei termini previsti dall'articolo 60 del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196, in caso di dati idonei a rivelare lo stato di salute e la vita sessuale". (22)

Senza volersi soffermare oltre sulle molteplici novità introdotte con l.15/05, ne va però rimarcata la rilevanza, tale da indurre il legislatore a prevedere una conseguente rielaborazione della normazione secondaria e settoriale in materia di accesso (23). In esecuzione di tale obbligo, il Governo è andato ben oltre l’intento di "integrazione" o "modifica" del d.P.R. 352/92 disposto dal novellato art.23 l.241/90, procedendo alla sua abrogazione con l’entrata in vigore del nuovo "Regolamento recante disciplina in materia di accesso ai documenti amministrativi", il d.P.R. 12 aprile 2006 n.184.

L’unica disposizione del precedente decreto Presidenziale a conservare vigenza è l’art.8, relativo ai casi di esclusione del diritto di accesso (e sul quale ci si è soffermati in precedenza). Tuttavia, l’abrogazione dello stesso è fissata dal d.P.R. 184/06 al momento della prossima entrata in vigore del regolamento che, ai sensi del novellato comma sesto dell’art.24 l.241/90, comporterà la riscrittura delle categorie di atti sottratti all’accesso da parte del Governo.

2) - LA PERTINENZA DEL RICHIAMO ALLA RISERVATEZZA IN OPPOSIZIONE AL DIRITTO DI ACCESSO AGLI ATTI DEL PROCEDIMENTO ISPETTIVO

Si è detto come, riguardo all’esercizio del diritto di accesso, il ricorso al giudice amministrativo contro gli atti ispettivi in materia di lavoro sia in prevalenza originato dalla volontà del datore (evidentemente frustrata in sede procedimentale) di venire a conoscenza del contenuto di una o più richieste d’intervento indirizzate alle Direzioni provinciali del lavoro e agli enti previdenziali e/o delle dichiarazioni rilasciate dai propri dipendenti in occasione dell’accesso in azienda da parte degli organi ispettivi.

Nel decidere sulla legittimità degli atti amministrativi di diniego dell’accesso, come si è visto, la giurisprudenza (tra cui quella sopra richiamata del T.A.R. Veneto) ha fatto preminente riferimento al conflitto tra trasparenza e riservatezza, in quanto quest’ultima risulta peraltro espressamente richiamata negli atti emanati dalle singole amministrazioni e menzionati al precedente paragrafo.

L’immediato (e apparentemente scontato) rinvio ai sopra indicati principi confliggenti ha comportato che l’operazione di bilanciamento tra gli opposti interessi assorbisse ogni esame (antecedente da un punto di vista logico) sulla natura del diritto riconosciuto in capo al lavoratore (24). In altre parole, non ci si è sufficientemente interrogati sui reali confini del diritto di riservatezza quale bene da tutelare in opposizione alla richiesta di accesso agli atti proveniente dal datore di lavoro.

Eppure, è di immediata intuizione come la risposta a tale questione condizioni in radice la soluzione del conflitto che insorge tra il privato datore di lavoro e la pubblica amministrazione in ordine alla possibilità di visionare ed estrarre copia degli atti relativi al procedimento ispettivo (ciò, beninteso, prescindendo dalla presenza di dati classificati come "sensibili" negli atti cui si chiede di accedere, e sulla quale si tornerà nel corso del presente scritto).

Sul tema, a seguito di sviluppi giurisprudenziali recenti, è dato ormai rinvenire due orientamenti del tutto opposti.

Un primo orientamento, che segue l’emanazione del d.P.R. 352/92 e conta numerose pronunce del Consiglio di Stato, non pone in dubbio il fatto che si possa individuare un vero e proprio diritto alla riservatezza in capo al lavoratore, tanto che le decisioni dei giudici, presupponendo tale dato (conformemente a quanto puntualizzato dalla detta produzione normativa secondaria), si soffermano piuttosto sulle conseguenze che ne discendono in termini di bilanciamento con il diritto di accesso.

In particolare, tale filone giurisprudenziale (25) si riporta espressamente alla nota sentenza dell’Adunanza plenaria n.5 del 1997, sebbene tale pronuncia non attenga strettamente alla materia del lavoro. Il caso pratico riguardava, infatti, un responsabile sanitario di una U.S.L. marchigiana, il quale aveva richiesto di accedere a tutte le lettere, note o segnalazioni pervenute alla Regione in merito al suo operato (e menzionate in due note successivamente inviate alla struttura sanitaria dalla stessa Regione): il diniego di accesso opposto al soggetto veniva motivato dall’esigenza di non deteriorare il rapporto medico—pazienti in seguito alla rivelazione dei nomi di coloro che, tra gli stessi pazienti (o loro familiari), avevano inoltrato alla Regione rimostranze relative ai comportamenti dell’istante.

L’Adunanza Plenaria, aderendo in tutto alla ricostruzione del giudice di primo grado e della Sezione rimettente del C.d.S., imposta il discorso in termini di conflitto tra diritto di accesso e diritto alla riservatezza e — richiamando tra l’altro alcune precedenti sentenze del Consiglio di Stato in materia di lavoro — dà ragione al soggetto istante, inaugurando meritoriamente quell’incontrastata impostazione che riconosce la prevalenza del diritto di accesso sulla riservatezza ogniqualvolta sia in discussione la cura e tutela dei propri interessi giuridici (impostazione su cui si avrà modo di tornare nel corso del presente scritto).

Nelle successive occasioni nelle quali si trova ad affrontare il suddetto contrasto in materia di lavoro, e dovendo pertanto esprimersi in merito a quanto previsto dall’art.2 del d.m. 757/94, il Consiglio di Stato, forte dell’impostazione avviata dall’Adunanza Plenaria, può spingersi ad affermare che "tale previsione regolamentare risulta in contrasto con la norma primaria di cui all’art.24 l. n.241/90 e, in particolare, con la previsione secondo cui il diritto di difesa prevale sulla riservatezza" (C.d.S. 10 aprile 2003 n.1923).

E’ per questa via, e sulla base della considerazione che si verta in tema di diritti soggettivi, che il Consiglio di Stato disapplica sistematicamente la norma regolamentare da ritenersi in contrasto con la legge 241/90 nell’ambito del conflitto che insorge tra il diritto di accesso ai documenti amministrativi ed il diritto alla riservatezza. Ed è a questo filone che si rifà anche T.A.R. Veneto, 18 gennaio 2006, n.301 (la prima delle tre pronunce emanate dal tribunale amministrativo nello scorso anno) quando afferma che "la preminenza del diritto di difesa sul diritto alla riservatezza, pertanto, impone di disapplicare le norme regolamentari confliggenti con il citato art.24, ma non anche di annullare le norme stesse perché ciò non appare strettamente necessario ai fini del soddisfacimento dell’interesse sottostante all’azione ex art.25".

In definitiva, questo primo orientamento giurisprudenziale, non ponendo in dubbio che il conflitto tra datore di lavoro e lavoratore sulla conoscibilità delle dichiarazioni e/o delle generalità di quest’ultimo rientri nell’alveo del bilanciamento tra trasparenza e riservatezza, riporta la risoluzione della questione (oltre che alla consueta disamina sulla "concretezza" e "personalità" dell’interesse fatto valere) al fatto che la richiesta di accesso agli atti sia finalizzata alla tutela di una posizione giuridicamente rilevante, stante l’assunto per cui "il diritto alla riservatezza è destinato a recedere tutte le volte in cui la conoscenza degli atti sia necessaria per l’esercizio del diritto di difesa". (26)

Le pronunce emesse da diversi tribunali amministrativi di primo grado nell’ultimo quinquennio portano tuttavia all’attenzione un secondo orientamento, del tutto opposto a quello sinora analizzato (27).

Una prima, timida apertura (28) riguarda un caso relativo ad una consistente omissione contributiva, contestata dall’I.N.P.S. al datore di lavoro in conseguenza delle dichiarazioni assunte da due lavoratrici: a fronte del diniego opposto all’istanza di accesso a tali dichiarazioni, il collegio giudicante si limita apoditticamente a ravvisare l’inesistenza di esigenze di salvaguardia della riservatezza, ordinando pertanto l’esibizione dei documenti richiesti. Nello stesso senso si pongono altre pronunce di poco successive, le quali, pur discostandosi dal primo dei due orientamenti, non sembrano coglierne coerentemente le conseguenze. (29)

E’ solo con la sentenza T.A.R. Veneto n.2760 del 14 maggio 2003, perciò, che la questione di cui si discute viene analizzata nei suoi aspetti fondamentali, conducendo ad una espressa censura dei giudici nei confronti del provvedimento I.N.P.S. n.1951/94, allegato A (punto II, n.12), relativo ai rapporti tra il diritto di accesso e la riservatezza: secondo i giudici, infatti, "evidente appare, nelle riportate disposizioni regolamentari intese a individuare i documenti sottratti all’accesso, una deviazione dalla finalità originaria dichiarata — mirante a proteggere un preteso diritto alla riservatezza dei lavoratori nei riguardi del diritto di accesso del datore di lavoro — verso l’esigenza di protezione del lavoratore medesimo da ritorsioni, repressioni, ecc., il che, palesemente, è cosa diversa dall’esigenza di riservatezza. Ciò mostra l’esistenza di una evidente disarmonia e incongruenza interna del regolamento, che già per questo merita di essere censurato".

Il carattere di novità della decisione è ancor più manifesto se la si esamina nel suo complesso: pur facendo espresso riferimento alla giurisprudenza che riconosce la prevalenza del diritto alla cura dei propri interessi in capo al datore di lavoro (30) — e che porterebbe comunque ad una pronuncia favorevole a quest’ultimo —, il collegio non si sottrae ad una valutazione sulla natura della situazione soggettiva individuabile in capo al lavoratore, confermando così l’antecedenza logica della risoluzione di tale quesito rispetto ad ogni eventuale rilievo sul conflitto tra diritto alla riservatezza e di accesso agli atti, e stabilendo inequivocabilmente, in punto di fatto, l’assenza di ogni profilo riguardante la riservatezza per quanto concerne le dichiarazioni rese dai lavoratori nel corso del procedimento ispettivo.

Tale ultimo assunto appare tutt’altro che discutibile ove si ponga mente alla (in parte già menzionata) connotazione che il bene "riservatezza" ha sin dall’inizio assunto nel nostro ordinamento: inserito nella categoria "aperta" dei diritti della personalità, il diritto alla riservatezza ha ad oggetto "la sfera di intimità della persona, che va salvaguardata dalla curiosità altrui, dall’indiscrezione con la quale altri indaghino e raccolgano notizie sulla vita privata, mettendone in pubblico aspetti che si vorrebbero coperti dal riserbo" (31).

All’interno del fisiologico progredire dell’istituto — che dall’iniziale diritto "ad essere lasciato solo" evolve sino a sancire in capo ad ognuno (come già visto) la possibilità di controllare i dati che lo riguardano; e che la stessa giurisprudenza riconosce e tutela anche "al di fuori del domicilio domestico" (Cass. civ., sez. III, 09 giugno 1998, n.5658) dopo un iniziale riferimento alle sole "situazioni e vicende personali e familiari che si svolgono nell'ambito del proprio domicilio" (Cass. civ., sez. II, 21 febbraio 1994, n.1652) —, va rimarcato come il bene "riservatezza" resti sempre circoscritto alla sfera più intima dell’individuo, come tale tutelabile in sé, cioè per la conoscenza che delle notizie ad essa pertinenti altri abbiano e non per le eventuali (successive) conseguenze che il carpire tali informazioni possa comportare.

Se è così, è evidente quale sia la maggiore contestazione che l’orientamento più recente muove all’altro: "in realtà, la conoscenza delle dichiarazioni rese dai lavoratori agli ispettori (…) non è idonea di per sé a ledere direttamente gli interessi professionali dei lavoratori o la loro ‘privacy’, come normalmente accade con l’ostensione di quei dati che attengono effettivamente alla sfera di riservatezza: piuttosto, la cognizione delle dichiarazioni dei lavoratori, in relazione alla loro condizione di parte debole del rapporto di lavoro, può agevolare comportamenti illeciti degli imprenditori, come ad esempio intimidazioni o licenziamenti…" (T.A.R. Piemonte, 24 giugno 2005, n.2654) (32).

Inglobare al bene "riservatezza" la serie di effetti che potrebbero discendere in ambito lavorativo dalla conoscenza del procedimento ispettivo (cioè ritorsioni, pressioni, intimidazioni, pregiudizi, azioni discriminatorie, etc., realizzate dal datore di lavoro in danno del lavoratore), rende palese come di alcun aspetto di riservatezza si stia realmente parlando: la lesione di tale bene, infatti, si realizza con l’ingiustificata intrusione nella sfera personale dell’individuo, al di là di ogni successiva conseguenza, di ogni pubblicazione o divulgazione di informazioni o dati illecitamente acquisiti (33), di ogni ritorsione o pressione che verrà (ed è una mera eventualità) posta in essere ai danni dell’individuo.

Ciò che viene efficacemente chiarito dall’ultima delle tre sentenze che qui si commentano, a fronte delle pretese esigenze di riservatezza richiamate dall’amministrazione resistente in giudizio: "riservatezza (…) mal invocata, in quanto la ratio del divieto ivi contenuto non era tanto di salvaguardare la privacy dei lavoratori, quanto di non esporli a ‘ritorsioni’ da parte del datore di lavoro" (T.A.R. Veneto 19 giugno 2006, n.1801) (34).

In definitiva, l’orientamento ora analizzato si contrappone al primo nel ritenere, a fronte di una richiesta di accesso avanzata dal datore di lavoro per la conoscenza degli atti del procedimento ispettivo, l’inopponibilità di motivi di riservatezza e, di conseguenza, l’impossibilità di pervenire ad alcuna operazione di bilanciamento tra opposti diritti (35).

D’altronde, come si avrà modo di vedere relativamente alle implicazioni che discendono da tale (più recente) filone giurisprudenziale, l’adesione allo stesso non è certo limitato a mere derivazioni teoriche, bensì comporta due rilevanti conseguenze, l’una di ordine sostanziale e l’altra di ordine formale.

3) - LA DIFESA DELLA POSIZIONE DEL LAVORATORE E LA CURA E TUTELA DEGLI INTERESSI GIURIDICI DEL DATORE DI LAVORO

La maggiore critica cui è sottoposta la posizione giurisprudenziale che disconosce la sussistenza di esigenze di riservatezza in capo ai lavoratori — nell’ambito del tema in discorso — tocca la stessa "ratio" giustificatrice della disciplina di normazione secondaria, individuata nell’efficace tutela del lavoratore da ogni tipo di "rappresaglia" datoriale conseguente alla conoscenza del contenuto di denunce o dichiarazioni fornite dallo stesso in sede di ispezione.

L’adesione al predetto orientamento, si afferma, comporterebbe la completa rinuncia a quella tutela, mentre solo dall’accoglimento della tesi opposta conseguirebbe che le esigenze di riservatezza — fatto in ogni caso salvo il diritto alla difesa da parte del datore di lavoro — possano essere dichiarate prevalenti rispetto ad ogni pretesa, preservando in tal modo il lavoratore da ogni indebito pregiudizio. Con la sola eccezione riguardante i lavoratori non più in forze presso l’impresa o la società sottoposta a procedimento ispettivo; e con l’ulteriore corollario che, ove la richiesta di accesso agli atti di tale procedimento veda ancora in forze il lavoratore presso il datore di lavoro, il diniego non possa comunque essere opposto oltre la successiva risoluzione del rapporto (ciò che è testualmente stabilito dagli stessi atti di normazione secondaria ministeriale e degli enti previdenziali, salva la previsione espressa di un termine massimo di "inaccessibilità" per taluni atti)().

E’ evidente come tale riflessione sia da ricondursi alla "ratio" già esposta, consistente nello scongiurare ogni tipo di ritorsione nei confronti del lavoratore per tutto il tempo in cui perduri il rapporto di lavoro.

La questione, per la sua evidenza, è stata affrontata da subito anche dall’opposto orientamento: tacendo del fatto che le norme di secondo grado più volte richiamate siano realmente idonee a scongiurare eventuali ritorsioni del datore di lavoro (una cosa è, infatti, la conoscibilità del contenuto di denunce o dichiarazioni dei dipendenti, altra è la conoscenza dell’identità degli stessi (37)), i giudici hanno osservato come i lavoratori abbiano la possibilità di azionare gli specifici strumenti di garanzia riconosciuti tanto dalla normativa lavoristica quanto dai contratti collettivi di categoria.

Si giunge, così, alla conseguenza di ordine sostanziale poco sopra preannunciata in relazione all’adesione al più recente orientamento, in forza della quale la tutela dei dipendenti diviene azionabile in un eventuale processo e non nell’ambito del procedimento ispettivo.

Un rapido excursus sulla giurisprudenza dell’ultimo trentennio in tema di atteggiamenti ritorsivi posti in essere dal datore nei confronti dei propri dipendenti mostra l’ampiezza della protezione riconosciuta dal giudice del lavoro: dal licenziamento (38) (che rappresenta, per così dire, l’estrema "rappresaglia" ai danni del lavoratore, in quanto comporta il suo allontanamento dalla realtà aziendale) e dall’assegnazione discriminatoria di incarichi e mansioni (39), la sindacabilità giudiziale sulle iniziative datoriali si è estesa alle valutazioni che riguardano le note di qualifica (40), il demansionamento (41) e, più di recente, il "mobbing" (42).

Se è vero che, conformemente ai principi generali sull’onere della prova, la dimostrazione del carattere ritorsivo di tali iniziative ricade sul lavoratore, ciò non rende preferibile l’opposta conclusione in favore di una "prevenzione" di qualunque azione discriminatoria a danno dello stesso attuata tramite la menzione di pretese esigenze di riservatezza da parte dell’amministrazione:

  • in primo luogo in quanto, come si è detto, appare eccessivo apprestare uno strumento di sistematica frustrazione delle istanze datoriali in funzione di contrasto di fenomeni ritorsivi che (lo si ripete) appaiono come una mera eventualità (43);
  • in secondo luogo per il fatto che nel processo del lavoro, che "trova la sua ragion d’essere proprio nella tutela dei diritti del lavoratore subordinato, considerato la parte debole dei contratti individuali di lavoro", occorre in ogni caso "assicurare la ‘parità delle armi’, garantendo un efficace contraddittorio anche al datore di lavoro, che, in mancanza di documenti come quelli richiesti, si troverebbe in difficoltà nel sostenere le proprie ragioni"(44).

Tali motivazioni risultano del resto efficacemente condensate, con specifico riguardo ad atti propulsivi del procedimento ispettivo, in C.d.S. sez. V, 22 giugno 1998 n.923: "Nell’ordinamento delineato dalla l. 7 agosto 1990 n.241, ispirato ai principi della trasparenza, del diritto di difesa e della dialettica democratica, ogni soggetto di diritti deve poter conoscere con precisione i contenuti e gli autori di esposti o denunce che, fondatamente o meno, possano costituire le basi per l’avvio di un procedimento ispettivo o sanzionatorio, non potendo la p.a. procedente opporre all’interessato esigenze di riservatezza — foss’anche per coprire o difendere il denunciante da eventuali reazioni da parte del denunciato, le quali, comunque, non sfuggono al controllo dell’autorità giudiziaria —, atteso che, per un verso, la tolleranza verso denunce segrete e/o anonime è un valore estraneo alla legalità repubblicana e, per altro verso, l’eccessiva tempestività dell’accesso può tutt’al più giustificarne un breve differimento se ciò è opportuno per gli sviluppi dell’istruttoria".

A fronte delle legittime richieste di accesso provenienti dal datore di lavoro, allora, il ripetuto diniego motivato in riferimento agli indicati atti di normazione secondaria asseconda il sospetto che ciò costituisca per l’amministrazione uno strumento per tutelare (oltre misura) il proprio operato piuttosto che la posizione del lavoratore.

Se dunque non coglie nel segno la critica per la quale l’accoglimento del più recente orientamento giurisprudenziale costituirebbe una "sottrazione di tutela" a danno del prestatore di lavoro, nemmeno può ritenersi (come pure è stato detto) che il più volte menzionato intervento dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato abbia comunque trovato soluzione alla problematica in esame, rendendo in qualche modo inutile la posizione assunta dall’orientamento giurisprudenziale più recente.

In tal senso, si è affermato che, dopo un periodo iniziale in cui il conflitto tra diritto di accesso e privacy era stato caratterizzato da un’interpretazione estensiva del concetto di riservatezza (45), l’intervento del Supremo Consesso abbia "rimesso in equilibrio" tale rapporto, riaffermando con forza il principio di trasparenza dell’azione amministrativa e, attraverso di esso, il corretto bilanciamento degli opposti valori nell’ottica della cura e difesa degli interessi giuridici del richiedente (nei limiti in cui l’accesso sia necessario alla difesa dei medesimi) (46). La successiva giurisprudenza del Consiglio di Stato ha inoltre chiarito che la formula "cura e difesa degli interessi giuridici" non è indirizzata esclusivamente alla tutela processuale del richiedente l’accesso, ma riguarda anche la tutela procedimentale: ove siano rispettati i limiti posti alle modalità di esercizio dell’accesso agli atti, spetta infatti al privato decidere dell’utilizzazione degli stessi. In altre parole, è in astratto accoglibile non solo la richiesta di accesso che il datore di lavoro intenda finalizzare alla difesa dei propri interessi in giudizio, ma anche, ad esempio, ad un ricorso amministrativo (compreso il ricorso straordinario al Capo dello Stato, percorribile allorquando siano decorsi i termini per la proponibilità di rimedi ordinari), ad una denuncia penale o ad una richiesta di risarcimento dei danni subiti in forza di atti sanzionatori illegittimi.

Tale tesi — seppure evidenzi il grande passo in avanti compiuto dall’Adunanza plenaria in termini di effettive garanzie di trasparenza amministrativa — non sposta i termini della questione come sopra enunciati: la "cura e tutela degli interessi giuridici" è principio che entra in gioco nell’ambito del bilanciamento tra contrapposti interessi (47), cioè del contrasto tra accesso e riservatezza. Laddove, come detto, si disconosca il ricorrere di esigenze relative alla privacy, la questione appare ab initio riferibile al solo diritto d’accesso (48).

4) - CONCLUSIONI

Il tema del contrasto tra la riservatezza dei lavoratori ed il diritto del datore di lavoro ad accedere agli atti del procedimento ispettivo è dunque sciolto da un primo orientamento giurisprudenziale in un’ottica di contemperamento nella quale — il più delle volte — è il "diritto di difesa" ad assumere valenza risolutoria. A parere di una più recente giurisprudenza, invece, ogni riferimento alla privacy è da rifiutare, sia in virtù della definizione intrinseca di riservatezza (non estensibile agli interessi in gioco nel contrasto tra datore di lavoro e lavoratori) che delle garanzie di trasparenza amministrativa e di difesa ampiamente riconosciute nei procedimenti a carattere sanzionatorio.

Peraltro, a questo punto del discorso, va fatto un rapido cenno ad altre due situazioni relative al diniego di accesso alla documentazione attinente ai rapporti di lavoro.

La prima riguarda gli atti non accessibili ai sensi dell’art.329 c.p.p. (e contemplati anche dalla legge sul procedimento amministrativo in tema di esclusione dal diritto di accesso, alla lett.a dell’art.24 comma primo) (49): in sede di accesso ispettivo compiuto dal personale del Ministero del lavoro, l’accertamento di una o più violazioni di norme penali a carico del datore di lavoro — anche se conseguente a dichiarazioni dei lavoratori, o a richieste d’intervento dagli stessi provenienti — comporta che da quel momento il predetto personale agisca nell’esercizio di funzioni di polizia giudiziaria, e che gli atti conseguenti siano compiuti in tale veste (50). Il problema è stato peraltro espressamente affrontato in una delle tre sentenze del T.A.R. Veneto sopra citate, la n.1130 del 27 aprile 2006, in tema di somministrazione illecita di manodopera ex art.18 d.lgs.276/03: ribadendo la generale prevalenza del diritto di difesa del datore di lavoro rispetto alle confliggenti esigenze di riservatezza dei dipendenti (così aderendo al primo dei menzionati orientamenti giurisprudenziali), il tribunale amministrativo ha tuttavia escluso nel caso concreto l’accessibilità agli atti richiesti in quanto "soggetti al segreto istruttorio in sede penale, disciplinato dall’art.329 c.p.p., a tenore del quale ‘gli atti di indagine compiuti dal P.M. e dalla polizia giudiziaria sono coperti dal segreto fino a quando l’imputato non ne possa avere conoscenza e comunque non oltre la chiusura delle indagini preliminari" (51).

La causa di esclusione dell’accesso come sopra evidenziata non rientra nell’argomento di cui alla presente indagine: in tal caso, infatti, si è nell’ambito degli atti coperti da segreto (come reso palese dal rinvio all’art.329 c.p.p.) e non di quelli attinenti al bene della riservatezza.

La seconda situazione cui si faceva riferimento più sopra riguarda il diniego alle richieste di accesso ad atti contenenti le informazioni di cui all’art.60 d.lgs.196 del 2003 (52), ovvero quei dati sensibili relativi alla salute ed alla vita sessuale dell’individuo già presi in considerazione dal legislatore negli artt.43 della l.675/96 e 16 del d.lgs.135/99: la norma del codice sulla privacy valorizza una risoluzione del contrasto riferita necessariamente al caso concreto, dovendo l’interprete valutare il rango degli interessi sottesi al diritto di accesso.

In tema di rapporti di lavoro, il suddetto contrasto viene sovente in rilievo nel caso di richiesta del datore di lavoro di accedere alle cartelle cliniche dei lavoratori detenute dall’Inail, in particolare nell’ambito di controversie che hanno ad oggetto la richiesta di risarcimento dei danni derivanti da infortunio o malattia professionale (53) (sia da parte dello stesso ente previdenziale, in forza del diritto di regresso per le somme corrisposte in relazione all’evento accertato e per il quale il datore di lavoro risulti responsabile, sia da parte del lavoratore, per i danni subiti che non siano indennizzabili dall’Istituto assicuratore).

Tuttavia, anche tali situazioni non attengono al tema del presente scritto, giacché, pur avendo ad oggetto un diritto alla riservatezza, quest’ultimo non viene in rilievo nell’ambito dei procedimenti ispettivi.

Tornando dunque all’oggetto dell’indagine così come in precedenza delimitato — e con esclusione di quelle situazioni le quali, come appena visto, non riguardano il contrasto tra esigenze di trasparenza e di riservatezza che venga in essere nell’ambito delle ispezioni in materia di lavoro —, possono ora trarsi le conclusioni sulla conformità della produzione regolamentare ministeriale e degli enti previdenziali ai principi di legge ed alle pronunce giurisprudenziali in materia.

Sia l’art.2, comma primo, lett.c) del d.m.757/94 che il n.12 dell’allegato A (punto II) al provv.1951/94 I.N.P.S., come si è ampiamente detto, affermano la sussistenza di esigenze di salvaguardia della vita privata e della riservatezza ove, dalla divulgazione di dichiarazioni e notizie acquisite a seguito di attività ispettive (divulgazione evidentemente conseguente all’accoglimento di istanze d’accesso ai pertinenti atti), possano temersi pregiudizi in danno dei lavoratori. Bisogna da subito rilevare come, al contrario, la delibera n.5/2000 dell’I.N.A.I.L., pur affermando la riservatezza degli accertamenti ispettivi in riferimento agli interessi già individuati dalla l.241/90 e dal d.P.R. 352/92, non faccia menzione alcuna ad eventi successivi che incidano sul rapporto tra il datore di lavoro ed i lavoratori che abbiano rilasciato dichiarazioni: in tal modo, la richiesta di accesso avanzata dal datore presso l’Istituto assicuratore potrà essere motivatamente rigettata in riferimento ai concreti interessi — rigorosamente da indicarsi nell’atto di diniego — che siano ritenuti ostativi ad una piena conoscenza della documentazione alla base dell’esito del procedimento ispettivo.

In forza di tale premessa, si può quindi ritornare alla rilevante conseguenza di ordine formale cui si è fatto riferimento in precedenza: conseguenza che, in ragione del più recente orientamento giurisprudenziale, spiega i suoi effetti sulla produzione normativa di secondo grado originata dalla previsione di cui all’art.8 del d.P.R. 352/92.

Se è vero che numerose pronunce dei giudici si sono limitate a disapplicare i provvedimenti ministeriali e degli enti previdenziali nella parte in cui oppongono al diritto d’accesso del datore di lavoro una pretesa esigenza di riservatezza a salvaguardia dei lavoratori (in base all’affermazione per cui l’annullamento "non appare strettamente necessario ai fini del soddisfacimento dell’interesse sottostante all’azione" (54) e nell’eventualità affermata dalla già vista sentenza n.5/97 resa dal C.d.S. in Adunanza Plenaria), ben altre conseguenze, invece, dovrebbero scaturire a livello normativo e regolamentare dalla piena adesione all’orientamento più recente: quanto da esso affermato, difatti, chiarisce come — nel caso del d.m. 757/94 Min. Lav. e della delibera I.N.P.S. n.1951/94 — la "delega" governativa ad emanare norme atte alla tutela della riservatezza sia stata sostanzialmente aggirata, essendo basata sull’esclusiva finalità di "difesa preventiva" da rappresaglie datoriali che (pur riconducibile all’auspicabile salvaguardia della parte debole del rapporto lavorativo) nulla ha a che fare con la stessa riservatezza.

Come si è visto, l’art.24 comma sesto della l.241/90 (così come modificato dalla l.15 del 2005) prevede l’emanazione di un nuovo regolamento governativo atto ad individuare le categorie di atti escluse dall’accesso. E’ in tale sede, o (se il Governo riterrà di operare come già fatto con l’art.8 d.P.R. 352/92) all’atto della successiva indicazione data dalle singole pubbliche amministrazioni, che la questione potrà trovare una definitiva risoluzione, evitando, in tal modo, una nuova serie di pronunce "disapplicative" della normativa regolamentare o (peggio) espresse censure di illegittimità da parte di quei tribunali amministrativi che ritengano di uniformarsi al secondo degli orientamenti sopra citati.

Quanto alla normativa di secondo grado attualmente in vigore — ed in ordine all’ampiezza della tutela apprestata in favore dei lavoratori —, va infine ricordato che nello stesso art.2 del d.m.757/94, alla lett.g), è prevista la sottrazione all’accesso di quegli atti "riguardanti il lavoratore e contenenti notizie sulla sua situazione familiare, sanitaria, professionale, finanziaria, sindacale o di altra natura, sempreché dalla loro conoscenza possa derivare effettivo pregiudizio al diritto alla riservatezza": il corretto riferimento ad una lesione "effettiva" della privacy — espressamente definita, peraltro, in relazione a quelle situazioni "personali" individuate dall’art.24 l.241/90 sin dalla sua versione originaria —, potrebbe condurre all’applicabilità di tale norma regolamentare anche nel caso di richieste di accesso agli atti concernenti procedimenti ispettivi, in vece della diversa previsione di cui alla lett.c). Ove ciò avvenga, l’inaccessibilità a documenti amministrativi, a parti di esso o a dati documentali, scaturirà dal richiamo ad esigenze di riservatezza effettive (cioè non condizionate da valutazioni ad essa estranee), o, al più, dall’irrilevanza della conoscibilità di determinati dati ai fini della cura degli interessi giuridici del datore di lavoro (ciò che potrebbe comportare, ad esempio, l’accesso al contenuto di una dichiarazione fatta dal lavoratore in sede di accesso ispettivo previa "copertura" delle generalità dello stesso, non necessarie al datore di lavoro per dimostrare l’insussistenza degli addebiti a lui mossi).

Arezzo, giugno 2007

NOTE

1 Ci si riferisce a T.A.R. Veneto, 18 gennaio 2006, n.301; 27 aprile 2006, n.1130; 19 giugno 2006, n.1801.
2 Non vi è alcun dubbio — anche in relazione al carattere impugnatorio del giudizio amministrativo — che legittimato passivo nel giudizio relativo al diniego sull’istanza di accesso sia la p.a. che su essa si pronuncia: ciò anche in forza dell’art.25, comma secondo, della l.241/90, per il quale la richiesta di accesso "deve essere rivolta all’amministrazione che ha formato il documento o che lo detiene stabilmente". Tuttavia, per quanto sia la determinazione amministrativa ad incidere concretamente sulla sfera giuridica del ricorrente (si pensi, ad esempio, all’irrogazione di una o più sanzioni nei confronti dell’azienda ispezionata, quale atto conclusivo della visita ispettiva), non è in dubbio che l’interesse sostanziale contrapposto all’accesso (cioè quello alla pretesa riservatezza delle dichiarazioni prestate) sia di pertinenza di terzi — i quali, difatti, in sede procedimentale assumono la veste di controinteressati — e non della p.a.. Non a caso, per quest’ultima, si è parlato di un ruolo "giustiziale", cioè di conciliazione tra le opposte esigenze o di individuazione di quella prevalente.
3 Per una più specifica disamina delle fonti relative al rapporto tra trasparenza e riservatezza, si veda M. LIPARI, "L’amministrazione pubblica tra trasparenza e riservatezza" in www.giustizia-amministrativa.it, mentre, per approfondimenti sull’evoluzione del "conflitto" tra diritto di accesso agli atti e diritto alla riservatezza, si rinvia alla nutrita bibliografia sul tema, tra cui R.PARDOLESI (a cura di), "Diritto alla riservatezza e circolazione dei dati personali", Milano, 2003; F.CARINGELLA-R.GAROFOLI-M.T.SEMPREVIVA, "L’accesso ai documenti amministrativi. Profili sostanziali e processuali", Milano, 2003; P.POZZANI, "Nuovi profili del diritto di accesso dopo la L.15/05" in www.giustizia-amministrativa.it ; G.P.CIRILLO (a cura di), "La tutela della privacy nel sistema del codice sulla protezione dei dati personali", Giuffré ed., 2004; M.CLARICH, "Diritto di accesso e tutela della riservatezza: regole sostanziali e tutela processuale", in Dir. proc. amm., 1996.
4 Ciò avviene in un periodo storico nel quale il bene della riservatezza non risulta espressamente menzionato in alcun testo normativo. Tuttavia, sulla scorta del dibattito ormai avviato nei paesi di tradizione anglosassone, la giurisprudenza mostra di prendere in considerazione il diritto alla "privacy", rinvenendone il fondamento giuridico nell’art.2 della Costituzione. Su tale argomento si tornerà oltre più approfonditamente.
5 Non a caso, per i documenti coperti da segreto la giurisprudenza, nel denegare l’accesso, parla di atti assolutamente non disponibili (cfr. T.A.R. Sicilia, Catania, sez.II, 22 settembre 2005 n.1448).
6 Art.24, comma quarto lett.d), della l.7 agosto 1990 n.241 (ora comma sesto dello stesso articolo, a seguito delle modifiche intervenute con l.15/05).
7 Ora abrogato, come si dirà oltre.
8 "Lo schema di regolamento ministeriale che, ai sensi dell'art. 24 comma 4 l 7 agosto 1990 n. 241, deve indicare le categorie di documenti sottratti al diritto di accesso, non deve individuare il "nomen iuris" di singoli atti bensì deve raggruppare atti omogenei, sotto il profilo delle finalità che essi perseguono, e della connessa necessità di riservatezza" (Cons. Stato, Ad. Gen., 06 ottobre 1994, n.235).
9 Nel caso del Ministero, l’esercizio del potere regolamentare è avvenuto oltre il termine posto dall’art.13 del d.P.R. 352/92 per provvedere: tale termine, originariamente fissato al 13 agosto 1992, è stato poi definitivamente prorogato al 30 giugno 1994 (ai sensi del D.L.16 maggio 1994, n.295, convertito, con modificazioni, nella l.15 luglio 1994, n.445). L’inadempimento allo stesso comportava una specifica "sanzione" introdotta dal medesimo articolo: se, prima dello scadere del termine, la singola amministrazione che non aveva ancora emanato il regolamento poteva comunque negare l'accesso mediante provvedimento motivato del Ministro (per le Amministrazioni dello Stato) e dell’organo di legale rappresentanza (per le altre amministrazioni ed enti pubblici), l’inutile spirare del termine comportava invece l’opponibilità del diniego nei soli casi tassativamente previsti dalla legge.
10 P.POZZANI, cit..
11 Non a caso — nonostante la valorizzazione dell’esigenza di trasparenza dell’azione amministrativa e l’assenza di una specifica normativa in tema di privacy — all’indomani dell’entrata in vigore della l.241/90 si registrò una prima opzione giurisprudenziale e dottrinaria secondo cui era da considerarsi prevalente la riservatezza, in quanto diritto di rango costituzionale superiore a quelli rinvenibili in riferimento alla disciplina sull’accesso, ovvero il diritto di difesa (art.24 Cost.), il buon andamento dell’azione amministrativa (art.97 Cost.), la tutela avverso gli atti della p.a. (art.113 Cost.). Un’opzione destinata a tramontare subito dopo, con l’affermarsi di due diverse scuole di pensiero: la prima ha argomentato nel senso che l’operazione di bilanciamento tra confliggenti interessi fosse già stata presa in considerazione dal legislatore (nella stessa legge 241) e risolta in favore dell’accesso; la seconda (per così dire, mediana) ha ritenuto che la riservatezza si ponesse in realtà in conflitto non con il diritto d’accesso, bensì con gli interessi che di volta in volta quest’ultimo andava a tutelare, degradandolo pertanto a mero diritto strumentale.
12 Tale definizione dà, anzi, per acquisita. Del resto, al fine di definire il diritto alla "riservatezza", si deve ancor oggi ricorrere all’elaborazione giurisprudenziale o dottrinale. In particolare, la Suprema Corte — che a tale istituto fa riferimento sin dagli anni ’70 (cfr. Cass., 27 maggio 1975, n.2199) al fine di proteggere le più svariate forme di aggressione alla sfera personale e familiare dell’individuo — così lo definisce: "Il diritto alla riservatezza - che, indipendentemente dalla sussistenza nell'ordinamento di altre e più specifiche previsioni, trova il proprio fondamento normativo nell'art. 2 Cost. e la cui lesione, pertanto, ove generatrice di danni, dà luogo a responsabilità ai sensi dell'art. 2043 c.c. — consiste nella tutela di situazioni e vicende strettamente personali e familiari, ancorché verificatesi fuori del domicilio domestico, da ingerenze che, sia pur compiute con mezzi leciti e senza arrecare danno all'onore, al decoro o alla reputazione, non siano tuttavia giustificate da un interesse pubblico preminente" (Cass. civ., sez. III, 9 giugno 1998, n.5658).
13 Ciò non toglie (come si è accennato poco sopra per l’I.N.A.I.L.) che le pp.aa. in facoltà di emanare il proprio regolamento in materia di accesso, intervengano al fine di armonizzarne il contenuto con la normativa sopravvenuta in tema di tutela della riservatezza.
14 Sulla perdurante conflittualità tra accesso e riservatezza ritorna in particolare l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato con le pronunce n.5 del 1997 e n.59 del 1999, di cui si dirà ampiamente per quanto riguarda i principi enunciati in tema di tutela dei propri interessi giuridici al ricorrere di opposte esigenze di riservatezza.
15 Si pensi al trattamento di dati sensibili da parte delle pp.aa., specificamente disciplinato dal d.lgs.11 maggio 1999 n.135.
16 Noto come "Codice sulla privacy".
17 Sebbene, per il pieno raggiungimento di un tale risultato, sia richiesto uno sforzo, anzitutto tecnico, non trascurabile (e ciò anche da parte di quegli organismi deputati istituzionalmente alla tutela del bene in discorso: primo tra tutti, l’Autorità garante della privacy).
18 Cfr. G.P.CIRILLO, "Diritto all’accesso e diritto alla riservatezza: un difficile equilibrio mobile", in www.giustiziaamministrativa.it.
19 Cfr. P.POZZANI, cit..
20 Art.59 d.lgs.196/03 (Accesso a documenti amministrativi): "Fatto salvo quanto previsto dall’art.60, i presupposti, le modalità, i limiti per l’esercizio del diritto di accesso a documenti amministrativi contenenti dati personali, e la relativa tutela giurisdizionale, restano disciplinati dalla l.7 agosto 1990 n.241, e successive modificazioni e dalle altre disposizioni di legge in materia, nonché dai relativi regolamenti di attuazione, anche per ciò che concerne i tipi di dati sensibili e giudiziari e le operazioni di trattamento eseguibili in esecuzione di una richiesta di accesso. Le attività finalizzate all’applicazione di tale disciplina si considerano di rilevante interesse pubblico".
21 Art.60 d.lgs.196/03 (Dati idonei a rivelare lo stato di salute e la vita sessuale): "Quando il trattamento concerne dati idonei a rivelare lo stato di salute o la vita sessuale, il trattamento è consentito se la situazione giuridicamente rilevante che si intende tutelare con la richiesta di accesso ai documenti amministrativi è di rango almeno pari ai diritti dell’interessato, ovvero consiste in un diritto della personalità o in un altro diritto o libertà fondamentale e inviolabile".
22 E’ il testo del nuovo comma settimo dell’art.24 l.241/90, una delle disposizioni più interessanti tra quelle introdotte dalla l.15/05 nel corpo della legge sul procedimento amministrativo.
23 Il secondo comma dell’art.23 della l.15/2005 così dispone: "Entro tre mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge, il Governo è autorizzato ad adottare, ai sensi dell'articolo 17, comma 2, della legge 23 agosto 1988, n. 400, un regolamento inteso a integrare o modificare il regolamento di cui al decreto del Presidente della Repubblica 27 giugno 1992, n. 352, al fine di adeguarne le disposizioni alle modifiche introdotte dalla presente legge". Inoltre, ai sensi del comma quarto dello stesso articolo, "ciascuna pubblica amministrazione, ove necessario, nel rispetto dell'autonomia ad essa riconosciuta, adegua i propri regolamenti alle modifiche apportate al capo V della legge 7 agosto 1990, n. 241, dalla presente legge nonché al regolamento di cui al comma 2 del presente articolo".
24 Ciò è valso anche per gran parte della dottrina (all’interno di una complessiva riflessione che ha mostrato prevalente adesione alle ragioni di tutela del prestatore di lavoro, per lo più motivata dalla "qualità" di parte debole del rapporto lavorativo).
25 Cfr., tra le altre, C.d.S. sez.VI, 17 ottobre 2003, n.6341; C.d.S. sez.VI, 10 aprile 2003, n.1923; C.d.S. sez.VI, 3 maggio 2002, n.2366; T.A.R. Abruzzo, Pescara, 23 febbraio 2001, n.198; T.A.R. Lazio, sez.III, 30 marzo 1999, n.810; T.A.R. Toscana 17 dicembre 1997, n.822; C.d.S. sez.VI, 4 luglio 1997, n.1066. Prima della sent. n.5/97 resa dal C.d.S. in Ad. Plen., si vedano, tra le altre, C.d.S. sez.IV, 19 novembre 1996, n.1604; T.A.R. Lombardia, Brescia, 4 maggio 1996, n.497, T.A.R. Campania, Napoli, sez.IV, 8 gennaio 1996, n.17; T.A.R. Veneto 28 dicembre 1995, n.1599; T.A.R. Lazio, Latina, 20 settembre 1995, n.666; T.A.R. Veneto, 24 giugno 1995 n.421 e 25 marzo 1995 n.456.
26 C.d.S., sez IV, 16 settembre 2003, n.5240.
27 Cfr. tra le altre T.A.R. Piemonte 24 giugno 2005 n.2654; T.A.R. Veneto 14 maggio 2003 n.2760; T.A.R. Basilicata, 16 novembre 2002 n.804, 14 novembre 2002 n.797, 4 settembre 2002 n.606, 19 luglio 2001 n.627; T.A.R. Emilia Romagna 5 aprile 2001, n.299.
28 T.A.R. Emilia Romagna 5 aprile 2001, n.299.
29 Il riferimento è in particolare all’orientamento sviluppatosi nelle menzionate sentenze del T.A.R. Basilicata (v. nota 27), il quale, seppure molto critico verso il regolamento emanato dall’I.N.P.S. in attuazione dell’art.8 d.P.R. 352/92, così motiva in ordine al conflitto tra opposti interessi: "se il Regolamento tutela in via diretta l’interesse pubblico all’accertamento delle omissioni contributive e all’applicazione delle relative sanzioni, allora lo stesso diritto alla riservatezza finisce per atteggiarsi a puro interesse legittimo protetto indirettamente, cioè solo nell’ambito del contestuale soddisfacimento dell’interesse pubblico".
30 Conformemente, peraltro, a quanto più volte in precedenza avvenuto nella giurisprudenza del medesimo Tribunale amministrativo.
31 E.SCANDOLARA, "La tutela costituzionale della privacy", 1996, in www.jusunitn.it.
32 Con tali affermazioni, il T.A.R. Piemonte si riporta a quanto già espresso, con gli stessi termini, nelle sentenze nn.606/02 e 797/02 del T.A.R. Basilicata, "depurandole" tuttavia dal contraddittorio riferimento alla figura dell’interesse legittimo (v. nota 29).
33 In tal senso, si veda anche Cons. Stato, sez. IV, 10 novembre 1999, n.1671.
34 D’altronde, ad asserire il contrario si rischia di incorrere in evidenti complicazioni logico-giuridiche: è il caso della menzionata pronuncia del C.d.S., 3 maggio 2002, n.2366 (riconducibile al primo dei due orientamenti sopra esposti), che, nell’affermare la sussistenza di esigenze di riservatezza prese in considerazione dall’art.2 d.m. 757/94, si pone "la questione interpretativa se i documenti acquisiti nel corso delle attività ispettive siano sottratti senz’altro all’accesso, ovvero solo quando, in concreto, dalla loro divulgazione possono derivare azioni discriminatorie, indebite pressioni o pregiudizi a carico di lavoratori o di terzi".
35 Quantomeno, non tra accesso e riservatezza: "Quanto al bilanciamento degli interessi in gioco, va sottolineato come la ponderazione non attenga tanto all’effetto tra diritti della difesa e tutela della riservatezza della fonte di informazione — che può avere rilevanza piuttosto in corso d’ispezione anziché all’esito della medesima —, quanto invece tra il primo interesse e quello alla tutela dell’integrità psico-fisica dei lavoratori (art.2087 c.c.). I quali, infatti, per il loro atteggiamento potrebbero venire verosimilmente assoggettati ad azioni discriminatorie e indebite pressioni" (M.PARISI, "Accesso agli atti dell’ispezione e tutela dei lavoratori", in Guida al lavoro n.25 del 16/6/2006, ed. IlSole24Ore). Fermo restando il conseguente interrogativo, di cui si darà conto più avanti nel presente scritto, se la tutela dell’integrità psico-fisica dei lavoratori trovi la sua sede naturale in ambito processuale piuttosto che in quello procedimentale.
36 In giurisprudenza, si veda in particolare la già menzionata C.d.S. sez.VI, 17 ottobre 2003, n.6341: "Dalla disciplina sopra ricordata dipende pertanto che, con riferimento ai documenti acquisiti nel caso di attività ispettiva (art.2, comma 1, lett. c, del D.M. n.757 del 1994) la sottrazione all’accesso, opponibile quando dalla loro divulgazione possano derivare azioni discriminatorie o indebite pressioni a carico dei lavoratori, viene in ogni caso meno con la conclusione del rapporto di lavoro (art.3, comma 1, lett.c); e che alla medesima conclusione deve pervenirsi anche nel caso delle richieste di intervento dell’Ispettorato del lavoro (art.2, comma 1, lett.b) provenienti da un lavoratore o aventi per oggetto il rapporto di lavoro, dal momento che l’art.3, comma 1, lett.b, del regolamento adottato con D.M. n.757 del 1994, dopo aver fissato in via generale un periodo di sottrazione all’accesso di cinque anni, precisa che tale sottrazione dura ‘finché perduri il rapporto di lavoro, quando la richiesta di intervento dell’Ispettorato del lavoro riguardi il rapporto di lavoro o provenga dal lavoratore’ ". Ciò al fine di dichiarare l’illegittimità del diniego di accesso opposto al datore di lavoro nonostante l’acclarata cessazione del rapporto con la collaboratrice la cui posizione era venuta all’esame del Collegio nel caso concreto.
37 "D’altra parte, anche se fossero ipotizzabili ritorsioni di sorta, è logico pensare che queste potrebbero essere messe in atto indipendentemente dalla conoscenza delle dichiarazioni rilasciate dalle lavoratrici, tenuto conto che l’identità di costoro, menzionate nominativamente negli atti di verbalizzazione notificati, è conosciuta dal rappresentante della società" (T.A.R. Emilia Romagna, 5/4/2001 n.299); ancor più incisivo T.A.R. Veneto 14/5/2003 n.2760: "… avendo già, in thesi, quei determinati lavoratori reso dichiarazioni tali da avere indotto gli organi ispettivi a muovere addebiti al datore di lavoro, ed essendo, perciò, noti i loro nomi e la sostanza bruta delle loro dichiarazioni (non fosse altro dalle risultanze del verbale ispettivo), non si vede che senso abbia dire che occorre tenere riservate le loro dichiarazioni". Meno "forte", a parere di chi scrive, l’osservazione del T.A.R. Emilia Romagna (ripresa anche da sentenze successive) secondo cui l’insistenza del datore nel voler acquisire le dichiarazioni avrebbe un carattere indiziante tale da costituire una "presunzione di discriminazione" ove si accertino comportamenti lesivi posti successivamente in essere nei confronti dei lavoratori.
38 Cfr., tra le altre, Cass. civ., sez. lavoro 10 novembre 2004 n.21378; Cass. civ., sez. lavoro, 25 maggio 2004, n.10047; Cass. civ., sez. lavoro, 06 maggio 1999, n.4543; Pret.Napoli 4 gennaio 1999; Cass. civ., sez. lavoro, 03 maggio 1997, n.3837; Trib. Roma, 19 ottobre 1995; Cass. civ., 04 luglio 1984, n.3916; Cass. civ., 14 febbraio 1983, n.1114.
39 Cfr. Pret. Ferrara 3 aprile 1992.
40 Cfr., tra le altre, Cass., sez. lavoro, 08 agosto 2000 n.10450; Cass., sez. lavoro, 27 febbraio 1995 n.2252; Cass., sez. lavoro, 14 dicembre 1990 n.11891; Cass., sez. lavoro, 23 gennaio 1988 n.560.
41 Cfr. Corte d’appello Firenze 4 febbraio 2003.
42 Cfr. Corte d’Appello Lecce 12 aprile 2005. Più di recente, Cass. pen., sez.VI, 21 settembre 2006 n.31413.
43 E’ curioso notare come proprio la sentenza n.5/97 dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, nel riconoscere il diritto dell’istante ad ottenere la visione delle lettere, note e segnalazioni delle quali richiede l’accesso, evidenzi l’infondatezza dei timori di parte avversa sulle "possibili ritorsioni". Parte della dottrina, del resto, ha visto in tale sentenza una riaffermazione del principio di trasparenza in uno dei momenti di più evidente "conflittualità" con il valore della riservatezza, scaturito dall’entrata in vigore della menzionata l.675/96: "per molti soggetti pubblici, in verità, l'avvento della l. n.675 ha rappresentato l'occasione per chiudersi nuovamente in se stessi e per confermare atteggiamenti, del passato, di sostanziale elusione del diritto di accesso, trincerandosi dietro a quella che potrebbe essere definita come una nuova forma di segreto, cioè la tutela della privacy" (si veda G.GUERRA, "L’accesso ai documenti amministrativi, la difesa di interessi giuridici e la tutela della riservatezza, alla luce del nuovo d.lgs. n.135 del 1999", in Giust.civ. 1999, pag.2209.
44 Cfr. T.A.R. Veneto, 14 maggio 2003, n.2760.
45 Come si è già avuto modo di dire, a proposito dell’evoluzione storica dei due istituti (v. nota 11).
46 Ne costituisce conferma la mera osservazione delle pronunce emanate dal g.a. successivamente alla detta sentenza dell’Adunanza Plenaria: l’affermazione della conoscibilità di tutti gli atti necessari alla cura e difesa dei propri interessi risolve in favore dell’accesso la quasi totalità delle questioni portate all’attenzione del giudice (da ultima, come si è già detto, T.A.R. Veneto, 18 gennaio 2006, n.301).
47 Come tale esso è stato recepito nel corpo della legge 241/90, al novellato art.24 comma settimo, dalla legge 15/05.
48 Ciò che peraltro comporta immediate conseguenze sul piano pratico; basti pensare alle modalità di esercizio del diritto di accesso ex artt.22, comma primo, e 25, comma primo, l.241/90, il quale prevede che il medesimo diritto si esercita mediante "esame ed estrazione di copia dei documenti amministrativi". Nella giurisprudenza è prevalso un orientamento "mediano" (non esente da fondate critiche), secondo il quale il datore di lavoro avrebbe accesso in modo totale, ovvero con estrazione di copia dei documenti richiesti, nel caso di dichiarazione di dipendenti non più in forze (in quanto non soggetti a possibili ritorsioni), e nella forma della sola visione per quanto riguarda i dipendenti ancora in forze (tra le altre, T.A.R. Veneto, 27 aprile 2006 n.1130; C.d.S. sez VI, 17 ottobre 2003, n.6341, T.A.R. Veneto, 14 maggio 2003, n.2760). Da rilevare da ultimo l’impostazione offerta da T.A.R. Veneto, 19 giugno 2006, n.1801 (ma non accolta da altre recenti sentenze), in virtù delle recenti modifiche normative: "… la regola della prevalenza dell’accesso sulla ‘riservatezza’ è stata ribadita dalla novella di cui alla L.11.2.2005 n.15 e rafforzata (…) dall’abrogazione della disposizione che ammetteva l’accesso nella forma ‘attenuata’ della sola presa visione, avendo l’art.22, comma 1 lett.a) espressamente stabilito che — ora — il diritto di accesso si esercita mediante ‘visione ed estrazione di copia’ dei documenti".
49 Mentre, sempre all’art.24, comma sesto (dunque nell’ambito di quegli atti individuati in forza di regolamento governativo) si prevede la sottrazione all’accesso di documenti concernenti "le strutture, i mezzi, le dotazioni, il personale e le azioni strettamente strumentali alla tutela dell’ordine pubblico, alla prevenzione e alla repressione della criminalità con particolare riferimento alle tecniche investigative, alla identità delle fonti di informazione e alla sicurezza dei beni e delle persone coinvolte, all’attività di polizia giudiziaria e di conduzione delle indagini".
50 Cfr. S.MARGIOTTA, "Ispezioni in materia di lavoro", Ed.Ipsoa, 2005, pagg. 133-164; si veda, inoltre, M.PARISI, cit..
51 Conferma la complessiva impostazione sul tema, anche la recente pronuncia del C.d.S. sez.VI, 13 dicembre 2006, n.7391: in particolare, nel solco di precedente giurisprudenza dello stesso Consiglio di Stato (sent.22/1999), si puntualizza che "se la pubblica amministrazione che trasmette all’autorità giudiziaria una notizia di reato non lo fa nell’esercizio della propria istituzionale attività amministrativa, ma nell’esercizio di funzioni di polizia giudiziaria specificamente attribuite dall’ordinamento, si è in presenza di atti di indagine compiuti dalla polizia giudiziaria, che, come tali, sono soggetti a segreto istruttorio ai sensi dell’art.329 c.p.p. e conseguentemente sottratti all’accesso ai sensi dell’art.24 l. n.241 del 1990".
52 Per il testo della norma, v. nota 21.
53 Cfr. P.GREMIGNI, "Attività amministrativa, accesso dei cittadini e diritto alla privacy", in Guida al lavoro n.12 del 18/3/2005, ed. IlSole24Ore.
54 In questo senso, conclude (tra le altre) anche la menzionata sentenza del T.A.R. Veneto n.2760 del 2003.

 


"Il presente scritto  frutto esclusivo del pensiero dell'autore e non impegna in alcun modo l'Amministrazione di appartenenza. Si ringrazia l'Avv. Massimiliano Pozzi del Foro di Roma per l'importante aiuto nella ricerca delle sentenze."

Quanto al primo periodo in particolare, i dipendenti del Ministero cui appartengo vi sono obbligati in forza di circolare ministeriale. Nel caso del presente scritto, ci˜  ancor pi utile in quanto le conclusioni cui esso perviene non ricalcano quelle adottate dall'Amministrazione in fase di valutazione delle richieste di accesso ai documenti amministrativi.