22a Conferenza Internazionale: "One World, One Privacy"
(Venezia 28-30 settembre 2000)

Quale privacy?

di
Umberto Eco

Mi scuserete se non svolgerò esattamente il tema che mi era stato proposto, e cioè quello della nuova cittadinanza elettronica. Non perché non sia argomento su cui sia poco da dire, ma perché mi sono reso conto che quanto avrei potuto dire è già stato detto, ed egregiamente, da Stefano Rodotà. Quello che Rodotà non ha detto, sarà, immagino detto, molto ampiamente, nel corso dei lavori che stanno iniziando.

Al massimo, posso sottolineare le ragioni per cui quella che chiamiamo una nuova cittadinanza elettronica comporta fatalmente una serie di rischi per la privatezza. Ma dopo, e come vedrete, m'intratterrò su questioni di antropologia culturale, chiedendomi che cosa sia oggi, per noi, la privacidad.

IL CONFINE. La prima cosa che la globalizzazione della comunicazione via Internet ha messo in crisi, è la nozione di confine. Il concetto di confine è antico come la specie umana, anzi, come le specie animali tutte. L'etologia ci insegna che ogni animale riconosce intorno a sé, e ai suoi consimili, una bolla di rispetto, un'area territoriale entro la quale si sente al sicuro, e riconosce come avversario chi varca quel confine. L'antropologia culturale ci ha mostrato come questa bolla protettiva vari secondo le culture, e per certi popoli una vicinanza dell'interlocutore che da altri popoli è sentita come espressione di confidenza, viene avvertita come intrusione e aggressione.

A livello umano, questa zona di protezione si è estesa dall'individuo alla comunità. Il confine, della città, della regione, del regno, è sempre stato sentito come una sorta di ampliamento collettivo delle bolle di protezione individuale. Si pensi quanto la mentalità latina fosse ossessionata dal confine, tanto da incentrare su una violazione del confine il proprio mito della fondazione: Romolo traccia un confine e uccide il fratello perché non lo rispetta. Giulio Cesare, nel passare il Rubicone, si trova di fronte alla stessa angoscia che, forse, ha colto Remo prima di violare il confine segnato dal fratello. Sa che passando quel fiume invaderà in armi il territorio Romano. Che poi si attesti a Rimini, come fa all'inizio, o marci su Roma, è irrilevante: il sacrilegio viene compiuto nel varcare il confine, ed è irreversibile. Il dato è tratto. I greci conoscevano il confine della polis, e un confine della grecità tracciato dall'uso della stessa lingua - o dai suoi vari dialetti. I barbari iniziavano là dove non si parlava più in greco. Negli stadi avanzati del proprio sviluppo la società romana sposta l'idea del confine da quella linguistica a quella giuridica: Roma è tutto ciò cui è stata conferita una definizione politica romana, e i barbari iniziano là dove non si sono più cives romani.

Naturalmente, da Roma in avanti, il confine sacro è sempre il proprio, e quello cui talora gli altri si appellano è sempre pretestuoso o illegale. Per attenerci alla sola Europa, la sua è una storia di lotte per una unificazione al termine della quale viene tracciato un confine, che viene continuamente violato nel caso di una guerra. La guerra viene iniziata perché si sostiene che certi territori appartengono ai propri confini naturali, segnati da fiumi o da montagne - e si riconosce l'illecito confine altrui solo nel momento in cui ci si gloria di averlo finalmente violato. Ma, non appena ottenuta la vittoria, non solo la prima cosa che si fa è tracciare il nuovo confine, ma anche disconoscere le barriere naturali ed annettersi territori più o meno irredenti che stanno al di là del corso d'acqua o della catena montana.

Talora la nozione di confine (politico) è stata cosi ossessiva da far erigere un muro all'interno della stessa città, per stabilire chi stava di qua e chi stava di là. E, almeno per i tedeschi dell'est, superare il confine li esponeva alla stessa pena inflitta al mitico Remo. L'esempio di Berlino Est ci dice, in forma essenziale, qualcosa che in realtà ha sempre riguardato ogni confine. Il confine non solo protegge la comunità da un attacco degli estranei, ma anche dal loro sguardo. Le mura e la barriera linguistica possono servire a un regime dispotico a tenere i propri soggetti nell'ignoranza di quello che avviene altrove, ma in genere garantisce ai cittadini che possibili intrusi non abbiano notizie dei loro costumi, delle loro ricchezze, delle loro invenzioni, dei loro sistemi di coltivazione. Detto in modo un poco romanzesco, la grande muraglia cinese non difendeva solo i sudditi del Celeste Impero dalle invasioni, ma garantiva anche il segreto della produzione della seta.

Di converso, i sudditi pagavano questa riservatezza sociale accettando la perdita della riservatezza individuale. Inquisizioni di vario tipo, laiche o religiose, avevano il diritto di sorvegliare comportamenti e spesso addirittura i pensieri dei sudditi, per non dire delle leggi doganali e fiscali, per cui si è sempre ritenuto giusto che la privata ricchezza dei cittadini dovesse essere nota allo stato.

Con Internet sarà la stessa definizione di stato nazionale che entrerà a poco a poco in crisi. Internet non è soltanto lo strumento che permette di stabilire delle chat lines internazionali e multilingui. E' che oggi una città della Pomerania può gemellarsi con un centro dell'Estremadura, trovando on line interessi comuni, e commerciando al di là delle autostrade, che passano ancora le frontiere. Oggi, sotto inarrestabile ondata migratoria, sarà sempre più facile per una comunità musulmana a Roma collegarsi con una comunità musulmana a Berlino, al di là della cittadinanza ufficiale assunta dagli immigrati.

Ma questa caduta dei confini ha provocato due opposti fenomeni. Da un lato non c'è più comunità nazionale che possa impedire ai propri cittadini di conoscere quello che accade in altri paesi, e sarà presto impossibile impedire al suddito di una dittatura qualsiasi di sapere in tempo reale quello che accade altrove. D'altro lato il monitoraggio severo che gli stati esercitavano sulle attività dei cittadini è passato ad altri centri di potere che sono tecnicamente in grado (anche se non sempre in forme legali) di sapere a chi abbiamo scritto, che cosa abbiamo comperato, quali viaggi abbiamo fatto, quali siano le nostre curiosità enciclopediche e addirittura le nostre preferenze sessuali. Persino l'infelice pedofilo che un tempo, nel chiuso del proprio villaggio, cercava di tenere segreta la sua insana passione, oggi è incoraggiato a diventare anche esibizionista, mettendo a repentaglio, on line, il proprio vergognoso segreto. Il grande problema del cittadino geloso della sua vita privata non è quello di difendersi dagli hackers, non più frequenti e pericolosi dei briganti da strada che potevano derubare un tempo un mercante in viaggio, ma dai cookies, e da tutte quelle altre tecnologie che permettono di raccogliere informazioni su ciascuno di noi.

Una celebre e recente trasmissione televisiva sta convincendo il pubblico mondiale che la situazione del Grande Fratello si verifica quando alcuni individui decidono (per libero anche se deplorevole atto di volontà) di lasciarsi spiare dalle moltitudini, felici di spiare. Ma non è questo il Big Brother di cui parlava Orwell. Il Big Brother orwelliano è messo in opera da una ristretta nomenklatura che spia ogni atto individuale di ogni membro della moltitudine, e contro i desideri di ciascuno. Il Big Brother orwelliano non è la televisione, dove milioni di voyeurs guardano un solo esibizionista. E' il panopticon di Bentham, dove molti custodi osservano, inosservati e inosservabili, un solo condannato. Ma se nel racconto orwelliano il Grande Fratello era una allegoria per il Piccolo Padre stalinista, oggi il Big Brother che ci osserva non ha volto e non è uno, è l'insieme dell'economia globale. Come il Potere di Foucault non è una entità riconoscibile, è l'insieme di una serie di centri che accettano il gioco, si sostengono a vicenda, a tal punto che, chi per un centro di potere spia gli altri che acquistano in un supermarket, sarà a sua volta spiato quando paga l'albergo con la carta di credito. Quando il Potere non ha più volto, diventa invincibile. O almeno diventa difficile controllarlo, ed è per questo che il compito delle varie persone e organizzazioni che discuteranno in questi giorni non è facile, forse è impossibile, certamente comporta problemi e risposte che non conosciamo ancora a sufficienza.

IL RISERBO.- Ma, anziché continuare a discutere su questi problemi, che oltretutto sfuggono alla mia competenza, permettetemi di tornare alle radici stesse del concetto di privacy.

Nella mia città natale si rappresenta ogni anno Gelindo, una commedia comico-religiosa, che si svolge tra i pastori a Betlemme, ai tempi della nascita del Salvatore, ma contemporaneamente sembra aver luogo nelle mie terre, tra contadini dei paesi vicino ad Alessandria. Infatti, viene parlata in dialetto, e gioca su contaminazioni di grande effetto comico, perché i personaggi dicono che per arrivare a Betlemme debbono attraversare il fiume Tanaro, che ovviamente si trova dalle mie parti, oppure attribuiscono al malvagio Erode leggi e regolamenti dei nostri governi attuali.

La commedia rappresenta, insomma, più che gli eventi sacri, l'ambiente e il carattere dei piemontesi che, per tradizione, sono molto chiusi, gelosi della loro vita privata, oltre che dei loro sentimenti.

A un certo punto appaiono i Re Magi, i quali incontrano Maffeo, uno dei pastori, e gli chiedono la via per Betlemme. Il pastore, vecchio e un poco rincitrullito, risponde che non la sa, e li invita a rivolgersi al suo padrone Gelindo, che dovrebbe rientrare tra poco. Infatti Gelindo rientra, e uno dei Magi gli chiede se è lui Gelindo.

Non c'interessa il dialogo tra Gelindo e i Magi bensì quello che si svolge dopo, quando Gelindo chiede ai suoi pastori come mai quello straniero conoscesse il suo nome, e Maffeo dice di averglielo detto lui. Gelindo s'infuria e minaccia di bastonarlo perché, dice, non si dice in giro il nome di qualcuno, così, come se fosse moneta da spendere. Il nome è una proprietà privata e, a renderlo pubblico, si sottrae a chi lo porta una parte della propria intimità. Gelindo non poteva conoscere la parola privacy, ma era proprio quel valore che stava difendendo.

Se avesse posseduto un lessico più articolato, ci avrebbe detto che stava manifestando riserbo o riservatezza, o discrezione, ovvero, che stava difendendo la propria intimità.

Si badi che la difesa del proprio nome non è soltanto un costume arcaico. Durante le assemblee del '68 gli studenti che si alzavano si presentavano come Paolo, Marcello, Ivano, non per nome e cognome. Il costume era talora giustificato dal timore che un agente di polizia potesse essere presente, e prendere nota degli autori dei vari interventi. Più spesso quella reticenza era un vezzo, ispirato all'uso dei partigiani, noti solo per il loro soprannome, onde evitare ritorsioni sulla famiglia lontana. Ma un oscuro desiderio di proteggere la propria identità è ancora presente in coloro che telefonano alle trasmissioni televisive e radiofoniche, talora per esprimere opinioni lecitissime, o per rispondere a un quiz. Una istintiva vergogna, forse (e ormai un'abitudine incoraggiata dai conduttori) li spinge a designarsi come Marcella di Pavia, Agata di Roma, Spiridione di Termoli.

Talora la difesa della propria identità confina con la pavidità, con l'incapacità di assumersi la responsabilità delle proprie azioni, così che si è portati a invidiare quei paesi in cui, quando qualcuno si presenta anche in pubblico, declina immediatamente nome e cognome. Ma se può essere bizzarra, e talora scarsamente giustificata, la difesa della propria identità onomastica, non lo è certamente quella della propria vita privata, per cui - e per antica tradizione - non solo si lavano in famiglia i panni sporchi, ma anche quelli puliti, e qualcuno può desiderare di non rendere nota la propria età, le proprie malattie, o il proprio reddito - almeno che non debba renderne conto per legge.

Ma da chi ci viene la richiesta di una difesa del riserbo? Certamente da coloro che intendono mantenere segrete delle transazioni commerciali, da chi non vorrebbe vedere violata la propria corrispondenza personale, da chi elabora dati di ricerca che non vuole ancora mettere in pubblico. Tutte queste cose le sappiamo benissimo, e si elaborano leggi per proteggere coloro che invocano il diritto alla riservatezza. Ma quanti sono coloro che invocano questo diritto? A me pare che una delle grandi tragedie della società di massa, quella della stampa, della televisione e di Internet, sia la rinuncia volontaria alla riservatezza. Il massimo della rinuncia alla riservatezza (e dunque al riserbo, sino al pudore) è - al limite del patologico - l'esibizionismo. Ora a me pare paradossale che qualcuno debba lottare per la difesa della privacy in una società di esibizionisti.

FINE DEL PETTEGOLEZZO. Una delle tragedie sociali del nostro tempo èstata anzitutto la trasformazione di quella valvola di sfogo, in gran parte benefica, che era il pettegolezzo

Il pettegolezzo classico, quello che si faceva nel villaggio, in portineria o all'osteria, era un elemento di coesione sociale. Non si spettegolava mai dicendo di qualcuno che era sano, fortunato e felice; si spettegolava su un difetto, un errore, una sfortuna altrui. Cosi facendo però gli spettegolanti in qualche modo partecipavano alle sventure degli spettegolati perché il pettegolezzo non implica sempre disprezzo, può indurre anche a compassione). Esso però funzionava se le vittime non erano presenti e non sapevano di essere tali (così che potevano salvare la faccia facendo finta di non saperlo). Quando la vittima veniva a conoscenza del pettegolezzo, e non poteva più fingere di non sapere, avveniva la piazzata ("brutta linguaccia, so che vai a dire in giro che...") Avvenuta la piazzata, la voce diventava pubblica. La vittima si esponeva al ridicolo, o alla condanna sociale, e i carnefici non avevano più nulla su cui spettegolare. Per cui, affinché il valore di valvola sociale del pettegolezzo rimanesse intatto, tutti, carnefici e vittime, erano tenuti, per quanto possibile, al riserbo, a mantenere una zona di segreto.

La prima variazione è avvenuta con la stampa. Un tempo esistevano pubblicazioni specializzate, che si occupavano di pettegolezzi su persone che, a causa del loro lavoro (attori e attrici, cantanti, monarchi in esilio, playboy) si esponevano volontariamente all' osservazione dei fotografi e dei cronisti. Il gioco era talmente scoperto che anche i lettori sapevano benissimo che, se l'attore tale era stato visto al ristorante insieme all'attrice talaltra, questo non significava che fosse necessariamente sorta tra i due una "affettuosa amicizia", e probabilmente tutto era stato a pianificato dai loro uffici stampa. Ma i lettori di queste pubblicazioni non chiedevano verità, chiedevano appunto divertimento, e basta.

Per fronteggiare da un lato la concorrenza della televisione, e dall'altro l'esigenza di nutrire un numero assai alto di pagine, onde poter vivere sulla pubblicità, anche la stampa cosiddetta seria, compresa quella quotidiana, ha dovuto occuparsi sempre più di eventi sociali e di costume, di varietà, di gossip e soprattutto, se non c'erano notizie, è stato costretto a inventarle. Inventare una notizia non vuole dire informare su un evento che non è avvenuto, bensì fare diventare notizia quello che prima non lo era, la frase sfuggita a un uomo politico in vacanza, gli eventi del mondo dello spettacolo. Il pettegolezzo è diventato così materia d'informazione generalizzata, e ha raggiunto anche penetrali che erano sempre stati esclusi dal monitoraggio curioso della cronaca rosa, toccando monarchi in trono, leader politici e religiosi, presidenti della repubblica, scienziati.

Questa è stata la prima trasformazione del pettegolezzo. Da sussurrato che era, è divenuto urlato, noto alle vittime, ai carnefici e a coloro che in fondo non ne erano.

L'INSIPIENTE. L'insipiente del villaggio dei tempi andati era colui che, poco dotato da madre natura, e in senso fisico e in senso intellettuale, frequentava l'osteria del paese, dove i crudeli compaesani gli pagavano da bere perché si ubriacasse e facesse cose disdicevoli e sconce - e tutti giù a ridere come matti. Si noti che, in quei villaggi, l'insipiente oscuramente capiva che lo stavano trattando da insipiente, ma accettava il gioco, perché era un modo per farsi pagare da bere, e perché un certo esibizionismo era parte della sua insipienza.

L'insipiente odierno del villaggio globale televisivo non è una persona media, come il marito che appare sullo schermo ad accusare la moglie d'infedeltà. E' al di sotto della media. Viene invitato ai talk shows, ai programmi di quiz, appunto perché è insipiente. L'insipiente televisivo non è un sottosviluppato. Può essere uno spirito bizzarro (come l'inventore di un nuovo sistema per il moto perpetuo, o come lo scopritore dell'Arca Perduta, di quelli che per anni hanno bussato inutilmente alle porte di tutti i giornali o di tutti gli uffici brevetti, e finalmente trovano qualcuno che li prende sul serio); può anche essere uno scrittore della domenica rifiutato da tutti gli editori il quale ha compreso che, anziché ostinarsi a scrivere un capolavoro, può avere successo calandosi i calzoni in video, e dicendo parolacce nel corso di un dibattito culturale; può essere la bas bleu di provincia che finalmente si trova ascoltata mentre pronuncia parole difficili e racconta di avere avuto esperienze extrasensoriali.

Una volta, quando gli amici dell'osteria avevano passato il segno con l'insipiente del villaggio, spingendolo a esibizioni insostenibili, interveniva il parroco, o un amico di famiglia, che prendeva l'infelice sottobraccio riportandolo a casa. Nessuno riporta a casa e protegge l'insipiente del villaggio globale televisivo, la cui funzione diventa simile a quella del gladiatore, condannato a morte per il piacere della folla. La società, che difende il suicida dalla sua tragica decisione, o il drogato dal desiderio che lo porterà alla morte, non difende l'insipiente televisivo, anzi lo incoraggia, come un tempo incoraggiava nani e donne cannone a esibirsi nei Luna Park.

Si tratta evidentemente di un crimine, ma non è della salvaguardia dell'insipiente che mi sto preoccupando (anche se se ne dovrebbero occupare le autorità competenti, visto che si tratta di circonvenzione d'incapace): è del fatto che, glorificato della sua apparizione sullo schermo, l'insipiente diventa modello universale. Se si è esposto lui, chiunque potrà farlo. L'esibizione dell'insipiente convince il pubblico che nulla, neppure la più vergognosa delle sventure, ha diritto a rimanere privata, e che l'esibizione della stessa deformità premia. La dinamica dell'ascolto fa sì che, non appena l'insipiente appare in video, diventi un insipiente famoso, e questa fama si misura in ingaggi pubblicitari, inviti a convegni e a feste, talora anche in offerte di prestazioni sessuali (d'altra parte Victor Hugo ci aveva insegnato che una bella dama può impazzire per l'Uomo che Ride). In definitiva si deforma il concetto stesso di deformità e tutto diventa bello, anche la malformazione, purché sia portata alla gloria del teleschermo.

Ricordate la Bibbia? Dixit insipiens in corde suo: Deus non est. L'insipiens televisivo afferma orgogliosamente: Ego sum.

ESIBIZIONI IN INTERNET. Un fenomeno analogo sta avvenendo anche su Internet. L'esplorazione di molte home pages ci dice che sovente la costituzione di un sito mira soltanto ad esibire la propria squallida normalità, quando non si tratti di anormalità.

Tempo fa ho trovato la Home Page di un signore che metteva a disposizione, e forse mette tuttora, la foto del suo colon. Come si sa, da molti anni è possibile andare in una clinica per farsi esaminare il retto con una sonda che reca al culmine una piccola telecamera. Lo stesso paziente può osservare su uno schermo televisivo a colori il viaggio della sonda (e della telecamera) "in interiore homine". Certamente si prova l'impressione di essere tra i primi rappresentanti della specie umana, dopo millenni e millenni, a seguire su schermo un itinerario attraverso le proprie viscere. Di solito, qualche giorno dopo l'ispezione, il medico consegna al paziente un referto con la foto a colori del suo colon.

Il problema è che tutti i colon di tutti gli esseri umani, in condizioni normali, si assomigliano - e questo è il vantaggio della natura, che procede in modo costante, forse un poco monotono, ma consentendoci di trarre da molti casi individuali (sia pure per azzardata induzione) leggi generali. Per cui qualcuno può essere gratificato dalla foto a colori del proprio colon (perché le vie del narcisismo sono infinite), ma ciascuno di noi (credo) resta fondamentalmente indifferente alle foto a colori del colon altrui. Ebbene, il signore di cui parlo, ha faticato a installare una Home Page per fare vedere a tutti la foto del suo colon. Si comprende quale deve essere il dramma psicologico all'origine di questa decisione. Una persona cui la vita non ha offerto alcuna possibilità di emergere, di trasmettere il proprio nome non dico alla posterità, ma neppure ai contemporanei, ha deciso di passare, se non alla storia, almeno all'attualità, mostrando a milioni di potenziali navigatori della rete telematica il proprio colon, che per ventura è uguale al colon di chiunque altro. Erostrato, per passare alla storia, ha incendiato il tempio di Diana in Efeso. Almeno il gesto era grandioso, e degno di nota, e comunque è passato alla storia, appunto, come un esibizionista.

CONCLUSIONE. Potrei continuare questa rassegna di casi in cui assistiamo alla rinuncia gioiosa alla propria privacy. Le migliaia di persone che ascoltiamo per strada, al ristorante, o sul treno, mentre discutono al telefono cellulare di loro privatissimi affari, o addirittura inscenano scenate amorose, non sono spinte dall'urgenza di comunicare qualcosa d'importante, altrimenti parlerebbero a bassa voce, gelosi del loro segreto. Sono ansiosi di far sapere a tutti che prendono decisioni in una azienda di frigoriferi, che comperano e vendono in borsa, che organizzano congressi, che sono stati abbandonati dal proprio partner. Hanno pagato per acquistare un telefonino e per sostenere una bolletta salatissima che permette loro di esibire di fronte a tutti la propria vita privata.

Non è per divertimento che mi sono intrattenuto su questa rassegna di piccole e grandi teratologie psicologiche e morali. E' che ritengo che compito delle autorità che vegliano sulla nostra privacy sia non solo difendere quelli che vogliono essere difesi, ma proteggere anche coloro che non sanno più difendersi.

Anzi, vorrei dire che è proprio il comportamento degli esibizionisti che ci dice quanto l'assalto alla privacy possa diventare non solo crimine, ma vero e proprio cancro sociale. E, primi tra tutti, sono i bambini che andrebbero educati in modo da sottrarli all'esempio corruttore dei loro genitori

Il circolo che si stabilisce è vizioso: L'assalto alla privacy abitua tutti alla sua scomparsa. Già molti di noi hanno deciso che spesso, il modo per mantenere un segreto, è renderlo pubblico, per cui si scrivono e-mail o si fanno telefonate in cui si dice apertamente ciò che si ha da dire, sicuri che nessun intercettatore troverà interessante una affermazione che non cerca di mascherarsi. A poco a poco si diventa esibizionisti perché s'impara che più nulla potrà essere riservato - e quando non c'è più nulla di riservato, nessun comportamento diventa più scandaloso. Ma, a poco a poco, coloro che attentano alla nostra privacy si convincono che le stesse vittime sono consenzienti, e non si arresteranno più di fronte a nessuna violazione.

Quello che volevo dire è che la difesa della privatezza non è solo problema giuridico, ma morale e antropologico culturale. Dovremo imparare a elaborare, diffondere, premiare una nuova sensibilità al riserbo.